Il 60% dei campi ancora irrigati a scorrimento
di C.Maurizio Scotti
Le tecniche agronomiche si sono evolute a volte fin troppo rispetto a quelli che sono i canoni biologici delle specie coltivate, sia nelle colture dirette o indirette per l’alimentazione umana che in quelle per usi industriali. Il tema su cui maggiormente si sono spinte le tecniche agronomiche è quello del contenimento delle necessitò idriche del vegetale in coltura sia nella fase di germinazione che in quella di accrescimento ed anche fino alla maturazione (fase questa assai complicata). I risultati sono stati particolarmente incoraggianti a tal punto da far credere che la genetica, e la conseguente modificazione degli organismi varietali, non sia così tanto fondamentale per aumentare in quantità le produzioni agricole al fine da riuscire a sfamare il Pianeta. Israele, Cina, Sudafrica, Giappone, Australia e Stati Uniti sono i Paesi che hanno aperto per primi la corsa alla tecnica agronomica in “soft water”, ora seguiti da Algeria, Iran, Kazakistan, Uzbekistan, India e Argentina, che hanno da poco iniziato ad introdurre colture orticole in zone semiaride, come le steppe temperate dell’Asia Centrale, il Piccolo Atlante africano e il Chaco sudamericano, zone in cui l’acqua non abbonda ma è comunque raggiungibile a profondità tra i 50 e i 100 metri e la cui bassa salinità relativa ne consente l’utilizzo diretto senza particolari problemi.
In altre zone del Pianeta, come in Indonesia, Vietnam e Nuova Zelanda, sono in uso alcuni impianti di desalinizzazione di acque salmastre o addirittura marine per suo agricolo. In Europa, soprattutto a Nord delle Alpi, per l’irrigazione agricola si sfruttano per lo più i grandi bacini lacustri e fluviali con sbarramenti e chiuse a riserva, mentre i Paesi del bacino del Mediterraneo, quelli maggiormente stressati dalle varie crisi idriche dovute al clima, alle necessità umane, alle carenze infrastrutturali, alle dispersioni e alla morfologia ambientale, limitano le irrorazioni con l’uso delle riserve di falde e con allacci alla portata di condotte a lunga percorrenza, come l’Acquedotto Pugliese, l’Acueducto de Andalusia o quello che dall’Epiro porta l’acqua ad Atene. Questi, però, sono una specie di caso limite, un quanto le colture estensive in territori simili sono quasi sempre cerealicole o graminacee foraggere.
Ciò che fa maggiormente riflettere il mondo agricolo nazionale in questi giorni è invece legato ad una crisi idrica che riguarda il più importante territorio agricolo italiano: la Pianura Padana, quella solcata dal Po e dai grandi affluenti di sinistra, cominciando dal Ticino, il secondo fiume a maggior portata d’acqua del nostro Paese.
In Pianura Padana si produce una grande varietà di colture agricole e ci sono i grandi allevamenti, quindi il consumo di acqua per necessità agronomiche è elevato; considerando poi la concentrazione industriale e quella urbana, si capisce che le esigenze di “oro blu” quotidiane in periodi di calura diventano mastodontiche.
Ciò non toglie che il quadro di questa quasi innaturale siccità penda tutto a sfavore del mondo agricolo, anche e soprattutto per colpe proprie. Infatti, ancora oggi e dopo almeno otto secoli, i campi della Pianura Padana sono prevalentemente irrigati col metodo dello scorrimento, ideato in epoca preromana, ampliato dai monaci nel Medioevo con la realizzazione di una fitta rete di rogge e fossi irrigui, e infine migliorato a fine Ottocento con la costruzione di veri e propri fiumi artificiali (Canale Cavour, Canale Villoresi, Canale Muzza). Per certi versi, i sistemi sono ancora quelli: prelevare acqua da Po, Sesia, Ticino e Adda e attraverso la canalizzazione farla giungere ai campi, “annacquandoli” per intere giornate.
Tolto il discorso relativo alle risaie, per tutti gli altri tipi di coltura agricola, mais compreso, l’ideale sarebbe quello di procedere all’irrigazione a pioggia o a getto, cosa che farebbe risparmiare grandi dispersioni e aumenterebbe il rendimento dell’acqua utilizzata per scopi agricoli. Non da ultimo verrebbero diminuite le spese di manutenzione per i tratti a diametro minore, le cui chiuse sono sovente ancora in legno. Ma è il fondamentale risparmio volumetrico quello che più interessa, tale che consente di mantenere i livelli migliori dei laghi prealpini e l’ordinario funzionamento delle dighe che alimentano le centrali idroelettriche dell’Ossola, della Valtellina e di tutto il resto dell’arco alpino. Infatti, da diversi anni a questa parte si assiste ai duelli rusticani tra industria, operatori turistici e mondo legato all’agricoltura, tutti pretendenti numeri uno al dominio sull’acqua che scende verso la pianura e che serve a produrre il 45% dell’agroalimentare di pregio Made in Italy. Ma, in questo caso, le colpe del mondo agricolo sono note da tempo: gli investimenti privati in fatto di irrigazione agricola sono stati minimi, quelli pubblici o consortili quasi inesistenti: dal Dopoguerra ad oggi, solo il 25% del territorio coltivato in pianura è stato dotato dio infrastrutture idriche da poter essere servito da impianti irrigui derivati da falda e il 15% utilizza pompe a turbina con pescaggio in corsi d’acqua superficiali. Tutto il resto, ovvero il 60%, è ancora annacquato a scorrimento, come 8 secoli fa usavano fare gli “avveniristici” monaci Cistercensi della Certosa di Pavia.
Prato con irrigazione a scorrimento (foto www.faivialattea.it)
Autore: C.Maurizio Scotti
11/07/2017.