Cosa resta della Convenzione delle Alpi?
di Andrea Pincin
La Convenzione delle Alpi è un trattato internazionale sottoscritto dai Paesi dell’area alpina (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Monaco, Slovenia e Svizzera) e dall’Unione Europea, entrato in vigore nel lontano marzo 1995. La Convenzione stabilisce i principi fondamentali per favorire uno sviluppo sostenibile dell’arco alpino, riconoscendo che “le Alpi costituiscono uno dei più grandi spazi naturali continui in Europa, un habitat naturale e uno spazio […] culturale e ricreativo nel cuore dell’Europa [nonché] lo spazio economico delle popolazioni locali”. L’articolo 2 della Convenzione Quadro obbliga le Parti contraenti, cioè gli Stati, ad assicurare “una politica globale per la conservazione e la protezione delle Alpi, tenendo equamente conto degli interessi di tutti i Paesi alpini e delle loro Regioni alpine, nonché della Comunità Economica Europea, ed utilizzando le risorse in maniera responsabile e durevole”. L’Italia, come Parte contraente, avrebbe dovuto svolgere i propri compiti con diligenza e responsabilità. Ma cosa è stato fatto fino ad oggi? La sesta Relazione sullo stato delle Alpi, pubblicata nel 2017 dal Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi, che si occupa di green economy, non ha inserito nemmeno un esempio virtuoso del Bel Paese per quanto riguarda il benessere economico, l’occupazione e l’inclusione sociale. La Relazione precedente, datata 2015, ha invece analizzato i cambiamenti demografici: guarda caso l’Italia presenta il più basso valore percentuale di popolazione in età lavorativa e “[l’area delle Alpi italiane è] caratterizzata da un calo del tasso di fecondità, uno spopolamento che interessa la fascia della popolazione attiva e un conseguente invecchiamento della popolazione”. D’altronde chi vive in montagna conosce bene queste problematiche: non a caso nel 2016 il Corriere delle Alpi ha pubblicato un Dossier
sullo spopolamento dell’area del Bellunese dove lo spopolamento tocca l’11%, “il doppio dello spopolamento rispetto alle altre province montane”. I dati sul comparto agricolo non sono di certo più floridi: il sesto Censimento Generale dell’agricoltura dell’ISTAT indica che “il confronto con i valori del precedente censimento mette in luce come [in Italia] il numero delle aziende agricole sia drasticamente diminuito […], con una variazione percentuale negativa di circa -32 %”. La terza Relazione sullo stato delle Alpi, pubblicata nel 2011, che si occupa proprio di sviluppo rurale sostenibile e innovazione, riporta: “tra il 1990 e il 2000, Slovenia, Italia e Germania hanno registrato riduzioni notevoli della percentuale di suolo utilizzato a scopo agricolo”. Un risultato alquanto deludente considerando che l’Italia avrebbe dovuto lavorare “al fine di garantire l’utilizzazione contenuta e razionale e lo sviluppo sano ed armonioso dell’intero territorio, tenendo in particolare considerazione i rischi naturali, la prevenzione di utilizzazioni eccessive o insufficienti, nonché il mantenimento o il ripristino di ambienti naturali” e riconoscendo il “ruolo centrale dell’agricoltura in considerazione del significato, che da sempre ha avuto nel territorio alpino, e dell’indispensabile contributo con cui questo settore economico concorrerà, come mezzo di sostentamento fondamentale, anche in futuro e particolarmente nelle zone montane, al mantenimento di un’adeguata densità di insediamenti, all’approvvigionamento alimentare della popolazione, alla produzione di prodotti tipici di qualità, alla conservazione e alla cura del paesaggio rurale – tra l’altro per la sua valorizzazione turistica, alla difesa del suolo contro erosioni, valanghe e inondazioni”. Speriamo che in futuro siano intraprese scelte politiche coraggiose a favore di tutte quelle attività agro-silvo-pastorali che permettono la cura dei paesaggi alpini a favore dell’intera collettività, quantomeno prendendo spunto da quelli che sono gli esempi virtuosi delle altre regioni alpine.
Autore: Andrea Pincin
20/06/18