1

Shiitake Lentinula edodes (Berk.) Pegler, 1976 – Prima Parte

di Lenaz Raoul

Shiitake in fruttificazione
Shiitake in fruttificazione su formula nuova e particolare di Lenaz, senza segatura…

Nozioni di carattere generale
Lo Shiitake, attualmente, dopo l’Agaricus bisporus ed i Pleurotus, è il fungo maggiormente coltivato. La sua produzione abbraccia buona parte dell’Asia ma in modo particolare la Cina, il Giappone, la Corea, Taiwan, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine. Lo Shiitake è uno dei funghi che i Cinesi, in modo affettivo, chiamano “Xiang –Gu” o “Shiang-Gu“, ovvero “ i funghi fragranti “ ; sempre in Cina, diverse forme di Shiitake sono conosciute anche come  “Dong Gu“, “The Winter Mushroom“, “Hua Gu“ , “ The Flower Mushroom” . Oggi comunque, è conosciuto e coltivato nell’America del Nord ed anche in quella del Sud, soprattutto nel Brasile dove ci sono delle colonie di Asiatici ed anche in Australia per lo stesso motivo. In Europa si sta coltivando da qualche anno, soprattutto per le sue prerogative medicinali, in diversi paesi come l’Olanda, ilo Belgio, la Germania, la Francia e la Spagna. Scarsa è invece la coltivazione in Italia anche se cominciano ad esserci delle richieste da parte di una quota parte di consumatori. E’ un fungo il cui consumo si sta diffondendo un po’ in tutto il mondo, sia per le sue caratteristiche nutraceutiche (medicinali) e sia per la sua bontà organolettica.
In differenti parti del mondo lo Shiitake è conosciuto con diversi nomi; il nome Shiitake deriva dalle parole giapponesi “Shii“ che significa legno duro della specie Pasania e “ Take “ che significa “ fungo “. Negli Stati Uniti è altresì conosciuto come “The Black Forest Mushroom“, in Francia come “Lectin“.
Il nome scientifico per lo Shiitake è “LENTINULA EDODES“ (Berkeley) Pegler. Basandoci sulle macro e micro morfologie caratteristiche, nonché su quelle che includono le analisi del DNA, lo Shiitake è classificato nel genere LENTINULA, nella famiglia delle TRICHOLOMATACEAE, ordine degli AGARICALES e sub phylum delle BASIDIOMICOTINA.
Per lungo tempo lo Shiitake fu conosciuto come Lentinus Edodes (Berk.) Singer, soprattutto presso i fungicoltori. Nel 1975 Pegler, propose di trasferire questa specie nel genere Lentinula. Questo trasferimento razionale, si basava su studi al microscopio.
Il genere Lentinula è monolitico, ovvero, nella carne del fungo è presente un solo tipo di micelio; nel genere Lentinus invece, le ife sono “dimitic“ , sono presenti cioè due tipi di ife. Recenti studi del DNA supportano l’inserimento dello Shiitake nel genere Lentinula.
Il ciclo di vita dello Shiitake indica chiaramente come esso cresca attraverso la dispersione delle Basidiospore prodotte nelle fertili lamelle poste al di sotto del cappello del fungo. In situazioni favorevoli, queste Basidiospore, prodotte attraverso la riproduzione sessuale della “Meiosi“ germinano dando luogo a ife monocariotiche dotate di un solo nucleo. Quando due ife monocariotiche e mononucleate, geneticamente compatibili, si fondono attraverso un processo di Plasmogamia (fusione delle ife), si originano le ife Dicariotiche le quali, di conseguenza, contengono in ogni compartimento ifale, due nuclei geneticamente differenti: saranno poi queste ife contenenti due nuclei e quindi il materiale genetico di entrambi, a poter generare la fruttificazione.
Come già in buona parte appena, sopra descritto, il ciclo di vita dello Shiitake inizia con la liberazione nell’aria delle Basidiospore da parte di un fungo maturo e con il loro trasporto nell’ambiente aperto da parte del vento. Trovandosi in una situazione adatta, sia dal punto di vista alimentare che climatico, la spora può germinare, dando luogo così all’inizio di una nuova colonia; ciò significa produzione di un nuovo micelio “primario“. Nel caso in cui il micelio primario si trovi in una situazione di potersi nutrire, esso può continuare a crescere senza problemi. In natura, quasi sempre, la fase di micelio primario, è normalmente breve ed esso non può produrre funghi. Lo sviluppo di un micelio secondario, con l’unione di due miceli primari e compatibili, può dar luogo invece alla formazione dei corpi fruttiferi. Chiaramente, non tutte le ife in forma di micelio primario sono compatibili fra di loro. Lo Shiitake possiede quattro tipi di accoppiamento, “mating“ o “sexes“ , i quali sono compatibili solo in determinate combinazioni. La possibilità che due miceli monocariotici possano crescere insieme e scambiarsi i nuclei, è legata al controllo di uno o più geni. Questo “Mating system“ dello Shiitake è “ Heterothallic “ o eterotallico che dir si voglia, il che significa che solo due spore geneticamente differenti possono unirsi e, “ Tetrapolar “ , il che significa che quattro differenti geni controllano la compatibilità delle spore.
Inizialmente, il poter produrre i funghi Shiitake era legato principalmente alle sue spore che, circolando nell’aria, andavano a posarsi nei nuovi tronchi tagliati con la speranza poi di poter germinare e far penetrare il micelio all’interno del materiale legnoso. Chiaramente ogni spora dava luogo a tipologie di funghi Shiitake diverse fra di loro in quanto geneticamente, il micelio proveniente da ogni spora, è diverso nelle sue espressioni. Solo replicando lo stesso micelio ed inoculandolo nei vari substrati, si potrà ottenere funghi dalle stesse caratteristiche. Ed infatti, fu solo dopo e grazie a Kitajima, che si sviluppò una tecnologia che permise di ottenere colture pure di micelio e migliorare così nettamente le fasi d’inoculazione e la produzione di funghi Shiitake
Due famosi ricercatori come S.T.Chang e Philip G.Miles nel 2004, ci descrivono una storia affascinante intorno a colui che sembrerebbe, sia stato il primo coltivatore di Shiitake in Cina.Dobbiamo andare indietro di molti secoli per descrivere la figura leggendaria di un certo WU SAN KANG  il quale, nelle selvagge foreste di montagna faceva il cacciatore e raccoglieva i funghi per nutrirsene. Wu San Kang era un attento osservatore e già nel lontano 1100 A.D. durante la dinastia “Sung“ (Luo, 2004)egli raccontava della presenza degli Shiitake nelle foreste, sui tronchi caduti. Egli si mise a tagliare i tronchi e constatò che i funghi nascevano e crescevano su di essi più larghi e meglio. Ma chiaramente, ciò non succedeva sempre e, un giorno, in preda alla collera, si mise a percuotere furiosamente i tronchi. Dopo diversi giorni, con sua grande sorpresa, sopra tutti i tronchi, nacquero tanti funghi, come dei fiori.

Si dice che questa operazione di tagliare e percuotere i tronchi, sia all’origine dello “Shocking Metod“. Sembrerebbe che ancora oggi, il 95% delle aziende che si trovano in quelle località dove nacque WU, nella contea di LONGQUAN, al confine con FUJIAN, continuino la tradizione di coltivare principalmente lo Shiitake e, l’80% lo fanno utilizzando i “Bags“ ed il 20% i tronchi di legno.
Nei secoli seguenti la tecnica di coltivazione fu migliorata da un certo Wang Cheng e descritta in un manoscritto del 1313; si parla dell’utilizzazione come fonte nutritiva dei tronchi di diverse specie di alberi, inoculati in modo diverso ma inizialmente con le spore dello stesso fungo. Nel xv secolo la sua coltivazione si spostò dalla Cina al Giappone in seguito all’immigrazione di agricoltori e monaci buddisti cinesi. In seguito furono proprio delle aziende cinesi che trasferirono la tecnica di coltivazione dello Shiitake in Giappone e, da allora, furono i Giapponesi a migliorare sempre di più la sua tecnica di coltivazione.
Un contributo importante per il miglioramento della tecnica colturale dello Shiitake si ebbe agli inizi del secolo xx ad opera di ricercatori giapponesi i quali, introdussero l’uso del micelio per inoculare i tronchi.  Infatti la seconda pietra miliare nella storia della coltivazione dello Shiitake fu proprio l’utilizzazione di una coltura pura di micelio per inoculare i tronchi da parte di K. Kitajima. Egli lo fece in Giappone nel 1936 (Chang & Miles,2004). Secondo Stamets (2000), la scoperta della tecnica della “coltura pura“ sarebbe da accreditare a Shozaburo Mimura, un micologo giapponese che nel 1904 e 1915, aveva pubblicato per primo il suo significato.
Fu poi il dr. Mori, a migliorare ancora di più la trecnica d’inoculazione dei tronchi, inserendo nei medesimi dei cunei di legno invasi completamente da micelio: questa tecnica permise di aumentare la produzione dello Shiitake e di far nascere nuovi produttori. Oggi l’uso dei cosidetti “plugs“ ovvero dei pezzettini di legno rotondi a forma troncoconica dotati da una sola parte di una punta, completamente permeati dal micelio, ha permesso di velocizzare la fase d’inoculazione e di ottenere una veloce invasione dei tronchi da parte del micelio.
Tradizionalmente lo Shiitake è stato da sempre, coltivato attraverso l’utilizzazione dei tronchi tagliati provenienti soprattutto dagli alberi della famiglia delle querce, ma non solo; i tronchi sono tagliati di solito durante la fase di riposo vegetativo in modo che possano contenere il massimo possibile di zuccheri.

Il coltivatore deve conoscere non solo la biologia del fungo e la sua risposta alle condizioni ambientali, ma anche le varie tecniche di coltivazione. E’ importante adottare le tecniche appropriate in funzione delle condizioni ambientali. Tradizionalmente lo Shiitake è stato coltivato e tuttora viene coltivato sia sui tronchi tagliati e sia, più recentemente, su un substrato a base di segatura normalmente arricchita e sterilizzata.
Una svolta importante nella coltivazione dello Shiitake, fu essersi inventato l’uso della segatura come substrato, il famoso “Mushroom Cylinder Metod“ che fu sviluppato e migliorato da Z.W.Peng in Gutien, Fujian, Cina, nel 1983.
Questo metodo di coltivazione, conosciuto bene come il metodo “ Gutien “ è usato in larga scala in Cina ed è stato descritto dettagliatamente da Ting nel 1994 e da Chang e Miles nel 2004. La coltivazione dello Shiitake su segatura risale già agli inizi del 1970 e Shanghai nel 1974 era il centro di questa innovazione.
Anche negli Stati Uniti è previsto l’uso di varie segature e la formazione di blocchi di substrato contenuti in sacchi di polipropilene dotati di filtro per la respirazione del micelio; però negli USA si pratica la miscelazione del micelio in modo uniforme con il substrato semisterile o sterile contenuto nei sacchi di polipropilene e questa operazione, permette una più veloce ed abbondante produzione, più raccolte (volate) e cicli più corti.
Lo Shiitake, in alcune nazioni, viene ancora coltivato sia su tronchi inoculati e poi fatti fruttificare all’esterno magari con alcune protezioni e sia, sempre su tronchi inoculati e fatti poi fruttificare all’interno di strutture che permettono una più costante e veloce fruttificazione. Potremo affermare, ripetendo le parole di qualche ricercatore, che la coltivazione dei funghi abbraccia la scienza ma rimane pur sempre un’arte. La scienza ha investigato sulla biologia del fungo ed in che modo i fattori ambientali lo possono influenzare; l’arte è rappresentata dal saper intelligentemente applicare tali conoscenze in modo tale da ottenere un buon successo nell’ambito della coltivazione e della produzione.
Le basi per ottenere un buon risultato nella coltivazione del fungo sono certamente un substrato nutritivo specifico e selettivo, la scelta di un ottimo micelio, puro e vigoroso, adatto a quel substrato, gestire le condizioni ambientali in modo tale da favorire al meglio la crescita del fungo.
In natura, il materiale base per l’alimentazione dello Shiitake è rappresentato dal legno di varie essenze arboree. Possiamo affermare che gli alberi di diverse specie, ovvero i tronchi tagliati ed inoculati col micelio di varie specie arboree, rappresentano il “Substrato Naturale“ che può ospitare lo Shiitake; il fungo, naturalmente , si nutre di alcune delle sostanze contenute nei tronchi degli alberi che lo ospitano. In linea di massima, il legno delle varie essenze contiene poco azoto e poi, della cellulosa, delle emicellulose e della lignina.

Riassumendo, possiamo affermare che lo Shiitake lo si può coltivare in primo luogo, utilizzando i tronchi tagliati ed inoculati e poi, come avviene oggi in modo molto più importante, utilizzando o la segatura proveniente dalle stesse specie oppure quella proveniente da essenze diverse miscelate fra di loro, sempre arricchita e sterilizzata.
Si utilizzano pure altri materiali sempre provenienti da colture agroalimentari, anch’essi contenenti azoto, cellulosa, emicellulosa e lignina, in tenori diversi a seconda delle materie prime e soprattutto, miscelate in maniera intelligente.
I funghi sono differenti dalle piante, le quali grazie all’energia del sole, in presenza di acqua ed anidride carbonica, attraverso la “fotosintesi clorofilliana“, riescono a sintetizzare i loro alimenti ed, è per questo motivo che esse, insieme alla alghe, vengono anche chiamate “produttori primari“. I funghi sono inabili a fare ciò che fanno le piante ovvero, non riescono a prodursi da soli gli alimenti di cui hanno bisogno; essi digeriscono ed assorbono le sostanze semplici che provengono da molecole più complesse che il loro pacchetto enzimatico ha demolito e degradato. Questo pacchetto enzimatico, diverso a seconda delle specie, per quantità di enzimi e per tipologia, è elaborato dal micelio di ogni fungo il quale, rappresenta la forma di vita vegetativa e di sviluppo del medesimo.
Sono conosciute almeno 100 mila specie di funghi ma quelli più importanti, almeno dal punto di vista economico, sono i Basidiomiceti ed gli Ascomiceti che vengono inseriti nella classe dei funghi superiori. Dal punto di vista pratico, sono i Basidiomiceti quelli che producono i funghi con un corpo fruttifero come quello che siamo abituati a vedere nei boschi o che acquistiamo, quando si tratta di funghi coltivati. Di norma, gli Ascomiceti producono funghi dotati di un piccolo corpo fruttifero. Un fungo, tipicamente, comprende un cappello dotato, al suo di sotto, di lamelle dove sono presenti le spore e di un gambo.
Nei Basidiomiceti troviamo gli Agaricales che includono lo Shiitake.
Il nome scientifico dei funghi è rappresentato da due parole di cui la prima, rappresenta il “genere“ e la seconda la “ specie “. Il nome scientifico del fungo che si può anche chiamare “nome latino“, richiede entrambe le parole ed i due funghi, Pleurotus ostreatus ed Agaricus bisporus, rappresentano un esempio semplice e lampante. Altre parole che accompagnano il nome latino, rappresentano i ricercatori che per primi hanno descritto o classificato le specie; queste parole possono essere abbreviate od inserite in parentesi. Ad esempio, Lentinula edodes (berk.) Pegler, rappresenta il nome scientifico dello Shiitake; il nome abbreviato (Berk.) tra parentesi rappresenta il nome di colui che per primo ha descritto la specie ovvero, “Berkeley“, ma però l’aveva inserita in un altro genere. “ Pegler “ rappresenta la persona che ha inserito lo Shiitake nel genere “ Lentinula “.
La classificazione dei funghi, come quella di altri organismi, ha creato nel tempo diverse controversie, con classificazioni e riclassificazioni legate a diversi criteri. Per anni lo Shiitake venne chiamato con molti nomi diversi e soprattutto “Lentinus edodes “grazie a R. Singer che nel 1941 lo classificò come tale; solo nel 1975 lo Shiitake venne inserito nel nuovo genere “Lentinula  edodes“ (Berk. ) Pegler.

Lo Shiitake passa la maggior parte della sua vita nella forma vegetativa di micelio secondario ed è in questa forma che colonizza i materiali organici come il legno, adsorbe i nutrienti in esso contenuti e li stocca in “riserva “ in attesa della fruttificazione. Senza una buona riserva di nutrienti, il micelio non può iniziare o passare alla fase di fruttificazione. La fase di produzione dei funghi inizia in risposta ad alcune situazioni ambientali che spesso stressano e sollecitano il micelio.
Lo Shiitake si assicura i nutrienti di cui ha bisogno, degradando il legno. Le ife producono gli enzimi i quali, sono in grado di demolire le molecole complesse come la Emicellulosa e la Lignina le quali, vengono trasformate in molecole più semplici assorbibili dalle ife del micelio. I principali fattori che influenzano la degradazione del legno, sono i contenuti in nutrienti del medesimo, il suo contenuto in umidità, la temperatura, la disponibilità di ossigeno e la concentrazione nel legno di molecole tossiche o inibitorie nei confronti del micelio e dei suoi enzimi.
I maggiori costituenti del legno sono la Cellulosa, le Emicellulose, La Lignina. Sono molecole abbastanza grandi e complesse. Nella Cellulosa ritroviamo lunghe catene di glucosio, mentre nelle Emicellulose abbiamo altri zuccheri come lo Xilosio ed il Mannosio. Nella Lignina ritroviamo componenti fenolici che molti funghi non sono in grado di degradare; dipende dalla tipologia di enzimi di cui ogni fungo è fornito in quantità e qualità diverse. Siccome in molte nazioni del mondo si produce lo Shiitake, sia sui tronchi di legno che sulla segatura di molte specie di “Querce“ è opportuno aprire una finestra che ci illustri la loro biologia e la loro ecologia.
La Quercia appartiene al genere Quercus, che raggruppa più di 250 specie di alberi ed arbusti che corrispondono ad “800 taxon“. Certi autori di specie ne contano circa 400, ma la tassonomia di questo genere, ancora oggi, è oggetto di vive discussioni e frequenti controversie. La maggior parte delle specie cresce nelle zone temperate dell’emisfero nord; esse fanno parte del ramo degli spermatofiti, sottotipo delle Angiosperme dicoltilate ed della famiglia Quercus. Le querce sono delle specie sociali, più frequentemente raggruppate in vasti massicci forestali, in parte legati al modo di disseminazione. Ogni specie possiede delle esigenze proprie che ne limitano l’espansione, principalmente le condizioni climatiche ed il suolo. Nel caso della famiglia Quercus, il genere si è largamente adattato a tutte le condizioni ambientali, visto che si riscontrano delle specie in zone paludose, in zone secche quasi aride, in numerose zone tropicali dell’America centrale e dell’Asia e pure, nelle zone montagnose fino a 2700 metri di altitudine. Le querce si sono dunque adattate a quasi tutti i grandi climi ed ai principali “Climax“.
I vari studi sulla ripartizione dei costituenti dei legni di latifoglie danno risultati relativamente similari ed il durame di quercia in media, è composto da un 40% di Cellulosa, un 20% di Emicellulosa, un 25% di Lignine, un 10% di tannini ellagici, da un 5% tra Osi, Lipidi, Steroli, sostanze volatili e minerali.
Le macromolecole polisaccaridiche quali la Cellulosa, la Emicellulosa e quei polifenoli che come le Lignine, costituiscono l’85% del legno. Su questo gruppo di costituenti, si notano poche variazioni tra le principali specie di querce. La Cellulosa è parzialmente presente sotto forma cristallina, pari circa ad un 45% e le Emicellulose sono naturalmente acetilate, mentre la Lignina si compone principalmente di unità Siringili e Guaiacili. I Tannini del durame di numerose specie di querce, appartengono al gruppo dei tannini idrolizzabili; comprende i tannini gallici ed i tannini ellagici.
Il durame di quercia è ricco in Lignine: possono rappresentare dal 25% al 30% del peso secco del legno. Le Lignine impregnano la parete cellulare e sono principalmente localizzate nella parete primaria; alle Lignine si attribuiscono le proprietà meccaniche del legno e la sua idrofobicità. Il carattere eterogeneo delle Lignine è un fattore importante all’origine della grande variabilità di composizione di struttura tra le specie, all’interno della stessa specie e pure, in funzione della loro posizione nei tessuti. Le Lignine del legno di quercia e di tutte le Angiosperme, sono dei polimeri tridimensionali costituiti dalla copolimerizzazione di alcoli Fenilpropenoici: alcol idrossi-4-metossi-3-cinnamico, alcol idrossi-4-dimetossi-3,5-cinnamico ed alcol cumarilico.
Il legno racchiude prevalentemente della cellulosa molto cristallizzata. La frazione emicellulosica si compone di catene molecolari più corte della Cellulosa e possiede inoltre delle ramificazioni della catena principale: gli osi costitutivi sono dei pentosi come lo Xilosio e l’Arabinosio, poi degli esosi quali il Glucosio, il Mannosio, il Galattosio ed infine, dell’acido Esauronico (acido Glucuronico, acido Galatturonico..), Ramnosio e Fucosio.
Nei tronchi degli alberi normalmente troviamo due parti anatomiche che ci interessano. Una prima parte, quella esterna chiamata “alburno o cambio“ che si trova al di sotto della corteccia, in inglese chiamata  “Sapwood“  è quella parte della pianta preposta al trasporto dei nutrienti dalle radici alle foglie e dalle foglie alle radici; per questo motivo la parte più esterna del tronco, il “ cambio “, che cresce di anno in anno, è quella che contiene il maggior quantitativo di nutrienti e di acqua. La seconda parte del tronco d’albero che ci interessa, è la sua parte interna detta anche “il cuore dell’albero“, in inglese “ Heartwood”,  che sarebbe quella meno ricca di acqua e di azoto e che funge da accumulo di detriti, di rifiuti organici prodotti dall’albero medesimo; il cuore è rappresentato da materiale morto che si presenta con un colore più scuro e la sua composizione chimica è differente dal cambio, talvolta addirittura inibitoria nei confronti di molti funghi.
Il livello di azoto nel legno, normalmente è basso, andando da un 0,03% ad un 0,3% sul secco e questo fatto, rappresenta un fattore limitante nella degradazione del legno medesimo. I funghi hanno bisogno di azoto per costruire le loro pareti cellulari, le loro proteine e per produrre i loro enzimi: la Cellulasi, l’enzima che degrada la Cellulosa, è costituita da un 16% di di azoto. Una parte degli enzimi è costituita da proteine, il che vuol dire amminoacidi e quindi azoto: la degradazione del legno è quindi condizionata dalla sua concentrazione in azoto!
Un altro elemento importante nel determinare la più o meno veloce degradazione del legno, è il suo contenuto in umidità; la troppa umidità o la troppo poca, può inibire la degradazione del legno da parte degli organismi preposti a tale processo. Il legno che è adatto alla degradazione, deve contenere abbastanza acqua, tale da creare un film di acqua libera sulla superficie della fibra cellulare; nel legno la prima acqua libera appare quando ha un tasso di umidità di circa il 23% sul peso del legno umido tal quale, tasso quest’ultimo chiamato “Punto di saturazione della fibra“. Un contenuto di umidità dell’80% generalmente inibisce la degradazione del legno per una presenza insufficiente di ossigeno. La presenza di un giusto velo d’acqua sulla superficie delle cellule del legno è necessario per la diffusione degli enzimi secreti dalle ife fungine e per il ritorno dei nutrienti semplici e quindi assorbibili, alle ife medesime. L’acqua gonfia le fibre del legno permettendo così agli enzimi di raggiungere i fasci della Cellulosa ma non solo, essa è inoltre indispensabile proprio nel processo di rottura delle molecole.

Nell’ambito della degradazione del legno da parte dei Basidiomiceti, abbiamo quelli che riescono a scindere la Cellulosa e tralasciano la Lignina, chiamati in inglese i “Brown-rot fungi“ e poi quelli che agiscono soprattutto sulla Lignina e meno sulla Cellulosa, chiamati in inglese “ White-rot fungi “ :lo Shiitake appartiene alla categoria dei “ White-rot fungi “ in quanto esso degrada bene la Lignina, le Emicellulose e meno la Cellulosa; sembrerebbe non dotato di attività cellulosica.
Nella coltivazione dello Shiitake, gli aspetti importanti sono quelli relativi alle sue necessità nutrizionali che comprendono le sorgenti di Carbonio, quelle di azoto, il rapporto Carbonio/azoto del substrato, nonché la presenza nel medesimo, di minerali, microelementi e  vitamine; non meno importanti sono i parametri fisico-chimici del substrato come il suo tasso di umidità, la sua struttura, il suo pH ed infine, quelli ambientali come la temperatura, la luce, il tasso di CO2 ed il grado di umidità all’interno delle strutture di coltivazione, diverso chiaramente, a seconda del momento colturale.
Ci sono funghi che amano substrati non troppo ricchi ed altri viceversa, che abbisognano e si avvantaggiano di quelli più ricchi. In ogni caso, bisogna comunque, cercare di rispettare un rapporto carbonio/azoto favorevole.
Nel caso dei funghi esotici, nei quali ritroviamo pure lo Shiitake, che crescono in natura su matrici un po’ povere, con un rapporto carbonio/azoto molto largo, la produzione si devolve con tempi lunghi, però in compenso, come contropartita, i funghi prodotti hanno sapori e profumi impareggiabili che soddisfano anche i più esigenti dei gourmets; parlare delle matrici naturali su cui crescono in natura i funghi è come parlare del “terroir “ nel caso dei  vini: lo stesso vitigno si esprime in modo assolutamente diverso, modificando terreno e microclima! La stessa cosa vale anche per i funghi nel momento in cui andiamo a modificare i loro substrati: cambiano i loro risvolti organolettici!
In Asia ed ora anche in America, si producono una vasta gamma di funghi con l’uso di segature provenienti dalle essenze più appropriate e facilmente reperibili, arricchite con varie materie ma, soprattutto, con crusca di grano o d’avena. Questo chiaramente, in linea di massima, in quanto ogni azienda, dopo un lavoro di ricerca, certamente utilizza le formulazioni che hanno dato i migliori risultati quanti-qualitativi. L’uso della segatura arricchita, prevede l’l’utilizzazione di un impianto che sterilizzi o semisterilizzi il substrato contenuto nei sacchetti o nelle bottiglie termoresistenti salvo qualcuno, che sterilizza il substrato sfuso e poi lo riempie nei sacchetti, il tutto in condizioni perfettamente asettiche!
In funzione soprattutto del tipo di materia prima a disposizione, utilizzabile e conveniente, i produttori possono scegliere tra un impianto che sterilizzi il substrato contenuto nelle “bottles“ ( bottigliette), o nei “bags “ (sacchetti )entrambi termoresistenti e, tra uno che disponga dei moderni tunnels di pastorizzazione: in questi, il substrato viene riempito sfuso a forma di letto alto metri 2 – 2,50 e quivi sottoposto a procedimento termico di pastorizzazione mediante vapore.
In giro per il mondo si utilizzano moltissimi sottoprodotti, il più delle volte provenienti da coltivazioni agricole intensive e da alcune industrie. Queste materie, sono le più disparate, ma nello stesso tempo, per ogni paese, le più rappresentative, in modo da poter essere sfruttate in medi o grandi impianti. Normalmente si utilizzano impianti dotati di generatori di vapore. Ogni operatore decide, in base alle materie prime, i ceppi da seminare e coltivare, il procedimento da seguire, pastorizzando, semisterilizzando o sterilizzando del tutto il substrato.
Le materie prime utilizzate nel mondo per produrre i funghi, al di fuori della paglia di grano e riso, sono le varie segature, i residui della lavorazione del caffè, thè, foglie di varie Palme, stocchi, foglie, tutoli di mais, bagasse proveniente dalla lavorazione della canna da zucchero, gusci vari, vinacce esauste, raspi, sansa d’olive, residui delle banane, paglia di fagioli, la Brassica napus, i residui del cotone, fieni vari di zone forestali, paglie di legumi, residui del sorgo, residui della soia, residui del girasole. Vedete quante e quali materie prime ci sono per preparare un substrato potenzialmente produttivo per vari funghi e, non sono tutte, quelle appena elencate!

Dalle attività agricole, forestali e quelle di alcune aziende alimentari, otteniamo una enorme quantità di materiali lignocellulosici. Una buona parte di questi materiali, previo ciclo di compostaggio, ritornano ai terreni sotto forma di compost di qualità ed un’altra parte, attraverso un processo di bioconversione, permette la coltivazione economicamente valida, dei funghi.
Come sappiamo, non essendo dotati di clorofilla, a differenza delle piante, i funghi non sono capaci di utilizzare l’energia solare per attivare processi biosintetici ma, comunque, producendo una vasta gamma di enzimi extracellulari, riescono a degradare le complesse sostanze organiche, trasformandole in molecole più semplici, utilizzabili direttamente per la loro nutrizione.
L’abilità delle differenti specie di funghi ad utilizzare i diversi substrati dipende dal binomio “Fungo/Substrato”.
Come già detto, i componenti dei residui lignocellulosici usati per la coltivazione dei funghi sono in genere rappresentati da Cellulosa, Emicellulosa e Lignina. Conseguentemente, la crescita e la produzione di funghi di ogni singola specie, utilizzando un particolare substrato lignocellulosico, dipenderanno in larga parte, dall’abilità del fungo, ad utilizzare i principali componenti di quel substrato come fonte di nutrizione. Il fungo dovrà avere la capacità di sintetizzare gli enzimi idrolitici ed ossidativi capaci di degradare Cellulosa, Emicellulosa e Lignina in molecole a più basso peso molecolare, assimilabili.
Fattori inerenti il substrato, includono pure la presenza di alcuni monomeri fenolici a basso peso molecolare i quali possono anche inibire la crescita di alcuni funghi. In effetti, i sottoprodotti lignocellulosici utilizzati per la coltivazione dei funghi, spesso, contengono monomeri fenolici (Cherney et Al.1989), alcuni dei quali vengono appunto rilasciati durante l’aggressione biologica della Lignina (Chen e Chang 1985). E’ riportato che, alcuni di questi monomeri fenolici, inibiscono la crescita miceliare (Akin e Rigsby 1985)  (Shea e Buswell 1992) ( Buswell ed Eriksson ) e gli enzimi idrolitici che catalizzano la degradazione dei componenti cellulosici ed emicellulosici delle pareti cellulari delle piante.
Quanto precede, ci fa capire, come la scelta di una determinata materia o di un mix di materie prime, per ogni singola specie di fungo, non debba essere lasciata al caso. Prendiamo in esame ad esempio, la produzione degli enzimi lignocellulolitici da parte di tre funghi molto conosciuti quali il  Lentinula edodes, il Pleurotus Sajor-Caju e la Volvaria volvacea.
Sia il Lentinula edodes che il Pleurotus Sajor-Caju crescono veramente poco in una coltura sommersa di Cellulosa cristallina e questa attività così povera, denota una loro mancanza di attività cellulolitica che è legata alla presenza di enzimi endoglucanasi, exoglucanasi e B-glucosidasi; inoltre, nessuna attività di enzimi extracellulari cellulolitici è riscontrabile quando questi due funghi vengono cresciuti in una coltura contenente segatura di Castanopsis-Fossa e crusca di grano. Invece, la Volvaria volvacea, cresce bene su Cellulosa cristallina ed, in coltura sommersa, si evidenzia la presenza di endoglucanasi,exoglucanasi e B-glucosidasi; simile schema di produzione di enzimi si osserva, sebbene ad un livello inferiore, quando la Volvaria volvacea cresce in una coltura sommersa di paglia di riso invece che di cellulosa ed, aggiungiamo pure, che negli estratti miceliari di Volvaria volvacea si constata la presenza di B.glucosidasi.
La segatura di Betulla (xilan) è un buon substrato per Lentinula edodes poiché il fungo presenta una elevata attività xilanasi; nella coltura sommersa non è presente un’attività B-xilosidasi ma è presente negli estratti miceliari. La stessa produzione di enzimi l’abbiamo quando il fungo viene coltivato su una miscela di segatura e crusca di grano.

Il Pleurotus Sajor-Caju cresce bene anche in coltura sommersa e agitata, con legno di Betulla (Birchwood Xilan) o in una miscela di segatura e crusca di grano, come sorgenti di Carbonio e, produce un apprezzabile livello di Xilanasi; gli estratti miceliari di Sajor-Caju provenienti da diverse condizioni di coltura, contengono altresì alti livelli di B-Xilosidasi.
Volvaria volvacea cresce poco su estratti di avena, grano di Farro o segatura di Betulla-Xilan e nella coltura non si riscontra attività Xilanasi; però quando lo Xilosio viene sostituito da paglia di riso, Volvaria volvacea produce un apprezzabile livello di Xilanasi extracellulare, un elevato tenore di B-Xilosidasi intracellulare ed un contenuto ma misurabile livello di B-Xilosidasi extracellulare.

Gli enzimi che possono intervenire e trasformare la Lignina sono:

  • la lignina per ossidasi ( LiP)- Tien e Kirk 1983 e Glenn et Al. 1983;
  • la Manganese-Perossidassi ( MnP )- Glenn e Gold 1985;
  • la Laccasi – Reinhammar, 1984.

Questi enzimi appena sopra elencati, sono quelli che giocano un ruolo nella detossificazione e rimozione nel substrato, dei composti fenolici la cui presenza può essere fonte di una potenziale inibizione nei confronti del micelio dei funghi.
Lentinula edodes, pur in diverse condizioni di coltura sembra non produca Lignina Perossidasi ( LiP ) mentre, in una situazione di coltura normale, con una limitazione di alimenti azotati, esso produce un elevato livello di Manganese-Perossidasi ( MnP ): tale produzione come appena accennato, viene soppressa in presenza di un elevato tenore di azoto nel substrato colturale. Lentinula edodes produce altresì Laccasi e tale produzione non viene intaccata variando il tasso di azoto nel substrato.
Il Pleurotus Sajor-Caju produce “H2O2-dependent veratryl alcohol oxiding enzyme“, alti livelli di MnP e Laccasi.
Volvaria volvacea, non presenta attività ligninolitica, almeno nelle varietà che sono state utilizzate nella ricerca.
La prima cosa che risalta è l’alta tolleranza dimostrata dal Pleurotus Sajor-Caju nei confronti dei composti fenolici, rispetto al Lentinula edodes ed alla Volvaria volvacea. Comunque ognuno dei tre funghi che sono stati testati hanno dimostrato delle sensibilità diverse sia in funzione delle molecole presenti che della loro quantità; la presenza di alcune determinate molecole e le loro quantità, possono essere di stimolo, mentre altre possono risultare inibitorie. Anche la presenza e le quantità dei tannini condensati come le Catechine, possono dar luogo agli stessi fenomeni di stimolo ed inibizione.
Lentinula edodes, Pleurotus Sajor-Caju e Volvaria volvacea, rispondono in maniera diversa a seconda dei residui lignocellulosici utilizzati per la loro crescita.
Lentinula edodes cresce bene su substrati a base di legno e tradizionalmente, è coltivato sui tronchi di Fagaceae, procedimento questo, che ultimamente in buona parte, è stato rimpiazzato dal “Bag Sistem“ che utilizza la segatura arricchita. La conversione del legno duro in eduli funghi Shiitake, è l’unico importante processo di bioconversione che utilizzi il legno. Le ricerche porterebbero ad indicare che i due enzimi ligninolitici maggiormente prodotti da questo fungo sarebbero la Manganese-Perossidasi (MnP) (Forrester et Al 1988) e la Laccasi, mentre potrebbe mancare di Lignina-Perossidasi (Ligninasi ). Oltretutto, sembrerebbe che Lentinula edodes nutrirebbe delle preferenze per la componente emicellulosica presente nel substrato “legno“. Non si è riscontrata nessuna significante crescita della Lentinula quando, come sorgente nutritiva di Carbonio, è stata utilizzata Cellulosa cristallina. Il Lentinula crescerebbe bene sulla miscela di segatura e crusca di grano: esso non presenta attività cellulolitica, anche se, Mishra e Leatham 1990, hanno riscontrato una sua attività endoglucanasi, exoglucanasi e B-glucosidasi e quindi attività cellulolitica, quando cresce su substrato a base di legno di Quercus Rubra.

Il naturale substrato per la Volvaria volvacea è la paglia di riso, la quale, ha un debole contenuto in Lignina (Dale 1987). La preferenza di questo fungo per substrati poco lignificati o “less lignified“, è messo in evidenza con l’incremento della resa in funghi che si ottiene quando la Volvaria volvacea è coltivata sui residui della piantagione del cotone (Chang 1991 ). E’ chiaramente evidente l’attività cellulolitica ed emicellulolitica della Volvaria volvacea e, l’avversione di questo fungo, nei confronti di substrati altamente lignificati, tant’è che non produce enzimi capaci di degradare la Lignina. In due varietà di Volvaria volbvacea utilizzate per lo studio, nelle condizioni normali di coltura non si è riscontrato infatti, la presenza di Laccasi, di Lignina-perossidasi (LiP) o di Manganese-perossidasi (MnP).
I polisaccaridi Cellulosa ed Emicellulosa nelle pareti cellulari, sono intimamente associate ad una parte di Lignina e tutto ciò, rappresenta una barriera nei confronti degli enzimi idrolitici che dovrebbero catalizzare la degradazione di questi polisaccaridi. Così, siccome Volvaria volvacea manca di un sistema ligninolitico che trasformi la Lignina, le viene negato l’accesso ai suddetti polisaccaridi e quindi, di conseguenza, la possibilità di crescita miceliare e di fruttificazione. Desiderando prendere in considerazione materiali meno lignificati, c’è da tener comunque presente, per la Volvaria volvacea, la sua elevata sensibilità nei confronti dei monomeri fenolici e dei tannini, in quanto quest’ultimi, influiscono sulla produzione ed attività delle cellulasi ed emicellulasi del fungo.
Il Pleurotus Sajor-Caju è, tra i tre funghi considerati, quello che meglio si adatta in termini di variabilità di composizione del substrato, sia per quanto riguarda i polisaccaridi che la Lignina. Relativamente pochi organismi sono in gradi di attaccare la Cellulosa nativa. Il pleurotus Sajor-Caju produce alti tenori di Xilanasi e di B-Xilosidasi e quindi, questo fungo potrebbe utilizzare preferibilmente le Emicellulose del substrato invece della Cellulosa. Il pleurotus Sajor-Caju produce grandi quantità di Laccasi “A Copper- containing Phenol Oxidasi “ che può giocare un ruolo importante nella biodegradazione della Lignina.
E’ evidente, in modo molto chiaro, la relazione esistente tra il profilo degli enzimi ligninolitici, la sensibilità nei confronti dei fenoli e tannini presenti e rilasciati dalla Lignina e, la capacità di ogni singola specie di crescere e fruttificare su substrati ligninolitici. Ogni specie di fungo è dotata di una sua particolare e complessa attività enzimatica, la quale, può essere facilitata o modificata, a seconda del tipo di substrato che gli mettiamo a disposizione. Come si vede, è importante saper scegliere… e non sempre s’indovina con la prima formulazione. Alcune volte si decide in base alle materie prime reperibili con facilità e dai costi contenuti…. ci vuole pazienza! Poi sicuramente, piano piano, arrivano i risultati e le soddisfazioni!
Chiaramente tutti i residui agricoli elencati precedentemente, quando necessario, vanno trinciati, bagnati e probabilmente arricchiti in modo opportuno e poi, sottoposti ad un procedimento termico che li rendano selettivi per il micelio che ci interessa inoculare.
Tante volte, a seconda della materia prima o della miscela utilizzata, c’è la necessità di modificare il valore del pH iniziale del substrato in funzione della specie di fungo che si desidera inoculare. Quindi si aggiungerà un po’ di Carbonato di Calcio se si desidera aumentare il pH od il Gesso (solfato di Calcio) se lo si desidera diminuire. Anche qui i dosaggi utilizzati variano naturalmente, in funzione delle formulazioni dei substrati. Si può controllare il pH, che esprime il grado di acidità o alcalinità di un sistema, nel nostro caso il substrato, mediante l’uso di un comune piaccametro o, in maniera più grossolana, mediante delle cartine al tornasole, che cambiano colore a seconda del grado di acidità o alcalinità del substrato.
Comunque il valore del pH è un parametro molto importante ed una buona parte dei funghi amano dei substrati tendenzialmente acidi: valori da 5,50 a 6,50 vanno bene, però l’optimum, varia da specie a specie.
C’è solo un problema, ed è quello che anche alcuni competitori importanti quali i Trichoderma, amano substrati tendenzialmente acidi. Quindi, a seconda del metodo di preparazione del substrato, questa pericolosità, legata ad un substrato troppo acido, va tenuta in considerazione; e questo, soprattutto nel caso di un substrato pastorizzato in massa nei tunnel.
Anche i trattamenti termici a cui sono sottoposti i vari substrati, modificano i valori del pH. Questo parametro va quindi misurato prima e dopo il trattamento a caldo del substrato. La maggior parte dei funghi, tende col proprio metabolismo, producendo soprattutto acido ossalico, succinico, acetico, ad acidificare il substrato e quindi ad abbassare il suo pH durante la fase dell’incubazione. Lo Shiitake ad esempio, lo acidifica sino a portarlo a valori di pH pari a 3 – 4.
Gli enzimi extracellulari secreti dal micelio dello Shiitake, sono in grado di degradare il substrato in presenza di uno specifico range di pH e quindi questo parametro è molto importante. Gli enzimi possono lavorare in un range di pH che va da 3 a 7 con però quello ottimale che va da 4,5 a 5,5. Lo Shiitake preferisce un substrato acido. Il migliore range di pH per la formazione dei primordi e quella dei corpi fruttiferi, va da 3,5 a 4,5. Inizialmente il pH del substrato potrebbe andare da 5 a 6, valore che poi, durante la crescita miceliare tende a decrescere per la produzione di acidi organici.
Ogni enzima elaborato dal micelio ha chiaramente un suo ottimo di pH che influenza la sua velocità di azione e quindi di degradazione delle materie prime: al di sotto ed al di sopra del suo ottimo, rallenta la sua attività sino ad essere completamente inibito. Il valore del ph inoltre, modifica la solubilità delle molecole e quindi in definitiva, interviene sulla loro disponibilità nutritiva per il micelio. L’ottimo di pH per i funghi, come abbiamo visto, quelli che degradano il legno, va da 4,5 a 5,5; per lo Shiitake si parla di un pH ottimale che va da un valore di 3,5 a 4,5. Il pH della segatura spazia da un 4,5 ad un 5. Comunque sappiamo che durante la fase d’incubazione il valore del pH tende a scendere a causa della produzione di acidi organici da parte del micelio.

Il Pioppino, ad esempio, non produce acido ossalico e quindi, tende a mantenere nel substrato un pH costante durante la fase dell’incubazione e questo, lo rende più debole nei confronti di alcuni competitori, soprattutto dei batteri. Anche l’uso del Carbonato di Calcio, che serve ad aumentare il valore del pH, quando necessario, in determinate situazioni può allungare i tempi della fruttificazione, soprattutto se usato in modo importante. Quindi il valore del pH del substrato è un parametro da controllare, sia per far sì che il micelio cammini veloce e sia per contenere lo sviluppo di alcuni competitori.
Per quanto riguarda il Tasso di umidità ideale del substrato, esso varia chiaramente, in funzione della specie di fungo interessato. Per i Prataioli, alla semina, può andare bene un tasso del 66% – 68%; per i Pleurotus ed i Pioppini, può andare bene un tasso di umidità del 70% – 72%. Quello che è importante, è che quel 72% non crei problemi di nessun genere in fase d’incubazione; un substrato pesante ma incubato bene, dà più funghi, non solo, ma più carnosi e pesanti. Lavorare con un substrato che abbia un 75% di umidità in vece di un 70% – 72%, è più impegnativo e pericoloso ma, se tutto va bene, si possono ottenere più soddisfazioni in termini di rese in funghi Pleurotus e Pioppini. Avere a fine incubazione dei sacchi o pani con al loro fondo, dell’acqua di condensa, eliminata in parte anche dal micelio in fase di raffreddamento, può essere pericoloso, perché in quella acqua, ci sono zuccheri che possono permettere la replicazione di forme batteriche, con tutto quello che ne può conseguire in fase di coltivazione. Quella parte di substrato, che si trova al fondo di un pane di 4 kg o di 25 kg di peso e che presenta un tasso di umidità troppo elevato, può diventare anaerobico ed acido, e quindi non facilmente invaso dal micelio.
Per quanto riguarda il tasso di umidità del substrato adatto per lo Shiitake, esso può variare da un 55% sino ad un 65%  ma, potrebbe andare bene anche un 70% : dipende molto dalle materie prime utilizzate,  dalla loro struttura,  dal potere d’imbibizione delle medesime e dal trattamento a caldo a cui vanno sottoposte; più elevata è la temperatura raggiunta all’interno del substrato e più questa dura nel tempo in fase di “Punta “ durante il trattamento a caldo, e più facile è che le materie prime utilizzate, trattengano al loro interno l’acqua che gli è stata data durante la loro miscelazione.  Il Lenaz, l’autore di questo articolo, ha affrontato personalmente, queste problematiche legate al tasso ideale di umidità del substrato per lo Shiitake, per il Cardoncello e per il Pioppino. Si tratta di ottimizzare in funzione del binomio materie prime e trattamento a caldo! Ci si può aiutare magari utilizzando anche, nell’ambito delle formulazioni, di sostanze che accumulano bene al loro interno molta acqua e se la trattengono; in questo caso si può preparare del substrato con qualche punto in più d’umidità senza avere problemi di percolamento dell’acqua al fondo del contenitore ma chiaramente, verificando poi alla fine, gli esiti di questa addizione.La presenza di un eccesso di acqua al fondo del sacchetto da 4 kg o blocco da circa 25 kg in fase d’incubazione, ovvero d’invasione del substrato da parte del micelio, può determinare, come si è constatato più volte, la non invasione da parte del micelio “ delle volte ce la fa e qualche altra volta no! “ di quella porzione di substrato che chiaramente, in questa situazione si ritrova con un tasso di umidità non idoneo “ delle volte può diventare pure anaerobico”  e quindi, ci si può ritrovare davanti a replicazioni batteriche o addirittura sviluppo di altri competitori quali sono le muffe verdi , nere e rosa: in fase d’incubazione del substrato vale quanto appena affermato, ma poi, a composto incubato e maturo, la tecnica per la fruttificazione e coltivazione dello Shiitake, prevede addirittura, alcune operazioni per aumentare il tasso di umidità all’interno del substrato. Quindi, prima, attenzione al tasso di umidità per la fase dell’invasione del substrato da parte del micelio e poi anche molta acqua senza problemi, ma chiaramente, sempre quel quantitativo tecnicamente giusto che non deve compromettere la potenzialità produttiva del substrato.
Per controllare il tasso di umidità dei substrati, ci si deve attrezzare con una bilancia tecnica ed una stufa termostatata. Si pesano 100 grammi di substrato, al netto della tara, e si mettono in stufa per almeno 12 ore a 105° gradi, in pratica sino a peso costante. Passate le 12 ore, si ripesa il contenitore con il residuo dei 100 grammi: il calcolo è facilissimo, come penso avrete già capito in quanto, il peso che rimane dopo le dodici ore, al netto della tara, rappresenta la sostanza secca del substrato in questione. Ad esempio, se troviamo un residuo netto di 30 grammi, facendo grammi iniziali 100 meno 30 capiamo che mancano all’appello 70 grammi che rappresentano il tasso di umidità del substrato in esame; siamo cioè in presenza di un substrato con il 70% di umidità ed il 30% di sostanza secca, un tasso che, per un Pleurotus od un Pioppino potrebbe andare bene, ma anche per uno Shiitake se dotato di una buona struttura.

Come vedete non è difficile determinare il tasso di umidità di un substrato. E’ un parametro molto importante che serve a farvi capire, quando si acquistano delle materie prime per fare substrato, se ve le forniscono col giusto tasso di acqua o meno; non solo, ma se non si può calcolare il tasso di umidità e di sostanza secca delle materie prime che utilizziamo per fare il nostro substrato, non si riesce nemmeno a calcolare le dosi da utilizzare per fare gli arricchimenti. E’ assolutamente necessario poter calcolare la percentuale di umidità e della sostanza secca di ogni singola materia prima che si andrà ad utilizzare nella formulazione del substrato: solo così, si potranno calcolare le aggiunte da farsi, sia di ogni singola sostanza che quella dell’acqua, per arrivare a quel desiderato tasso di umidità e di azoto nel composto.
Si può determinare il tasso di umidità del substrato anche sottoponendo i 100 grammi netti ad una temperatura di 180° gradi per circa un’ora, in pratica comunque sempre sino a peso costante in quanto acqua da eliminare non ce n’è più e quel che rimane è tutta sostanza secca!
Lo Shiitake è un fungo che per un suo ottimale metabolismo ha bisogno della presenza di un certo tenore di ossigeno. Le sostanze organiche attraverso il processo di respirazione vengono ossidate e l’energia rilasciata in questo modo, viene conservata nelle molecole di ATP e successivamente, utilizzata per la crescita del micelio e per la sua fruttificazione.
Differenti momenti nella produzione dello Shiitake, significano differenti richieste di ossigeno. La fase riproduttiva richiede molto più ossigeno della fase di crescita vegetativa del micelio. Durante la formazione dei corpi fruttiferi c’è più rilascio di CO2 e quindi c’è bisogno di una maggiore ventilazione con apporto di aria e quindi ossigeno. E’ stato riportato che ogni fungo Shiitake, può produrre 0,06gr/ora di anidride carbonica. Durante la fase riproduttiva c’è bisogno di una buona circolazione di aria. L’aria esterna contiene uno 0,03% di CO2 e, un tasso di CO2 superiore all’1% inibisce lo sviluppo dei corpi fruttiferi e determina una loro più veloce maturazione con apertura del velo. E’ chiaro che ogni produttore, in base alle proprie strutture di coltivazione, al momento climatico ed al ceppo di Shiitake utilizzato, dovrà sapientemente gestire il ricambio di aria all’interno delle celle, prendere confidenza con tutti questi parametri importanti nelle varie fasi culturali.
Un altro fattore importante per lo sviluppo del micelio e per la fruttificazione dello Shiitake è la “LUCE“. La presenza della luce infatti, per alcune specie di funghi condiziona il grado di degradazione del substrato nutritivo. Per lo Shiitake si parla addirittura della necessità di una esposizione alla luce anche durante il periodo della crescita vegetativa del micelio, esposizione che costituirebbe un prerequisito per la fruttificazione. Il micelio può crescere al buio, in assenza completa di luce ma, in presenza di una luce debole e diffusa, il micelio cresce meglio che in presenza di una luce diretta e forte, tant’è che se quest’ultima è forte, potrebbe inibire anche la crescita miceliare. Al buio, il micelio cresce 3 – 4 volte più veloce che in presenza di 500 lux; comunque per la fase dell’incubazione ovvero, d’invasione da parte del micelio del substrato, si parla pure di una necessità di 180 – 940 lux, con un ottimo intorno ai 550 lux. La luce è richiesta per la formazione dei corpi fruttiferi dello Shiitake. Il livello ottimale durante la fruttificazione sembrerebbe essere di 50 – 100 lux di luce diffusa. Questa necessità comunque, non è almeno per il momento, ancora ben definita. La presenza della luce gioca altresì un ruolo importante durante la crescita dei funghi, soprattutto per quanto riguarda le lamelle e la formazione delle spore.
Lo Shiitake “Lentinula edodes“, è un saprofita e più precisamente un “White Rot Fungus“ che in natura si nutre del legno morto degli alberi di quercia. Nel suo ciclo di vita, ogni Basidio che si trova sotto le lamelle del corpo fruttifero, produce quattro basidiosppore le quali, in determinate condizioni, germinano dando luogo al micelio primario, il quale, successivamente, come già detto anche precedentemente, fondendosi con dell’altro micelio primario compatibile, dà luogo al “micelio secondario “. Il cosi detto “Shiitake Spawn” non è altro che un terreno di coltura colonizzato da un micelio secondario, quello che in determinate condizioni, potrà formare i corpi fruttiferi.
Oltre alle segature di varie specie di alberi ed i grani di cereali, molti altri residui dell’agricoltura possono essere utilizzati quali terreni colturali di base per preparare il micelio. Diciamo che le materie utilizzabili per preparare il micelio possono essere i tutoli di Mais macinati, le bucce dei semi di cotone, i gusci di arachidi (Chang and Miles ,1989), la segatura arricchita con la crusca di riso (Singer, 1961). Il produttore di micelio ha la possibilità di scegliere tra almeno una trentina di specie di segature ma, alcune, non sono ben digestate dagli enzimi fungini. In generale, gli alberi a foglie ampie, sono quelli che forniscono la migliore segatura per ottenere lo “Shiitake Spawn“. Le foglie di thè, sono state talvolta usate in Asia quale materiale di base per fare micelio, miscelandole anche con cereali in grani e residui del cotone (Chang e Miles, 1989). Pure la crusca di grano è utilizzata quale additivo da aggiungere alla segatura, nella preparazione del terreno colturale per il micelio. Un criterio per misurare la qualità del micelio, è il suo vigore e la quantità di funghi da esso prodotti. Un micelio di alta qualità deve essere altresì microbiologicamente puro e non mescolato ad altri microrganismi. Il ceppo dovrebbe essere geneticamente stabile e mantenere costanti le caratteristiche di quel ceppo quali, il colore e la sua tipica morfologia. Il micelio incubato, dovrebbe essere mantenuto in una cella frigorifera fredda ed utilizzato normalmente entro un mese di vita. Non è facile dire se il micelio è buono o meno solo osservando “l’esterno“ della sua massa. In un micelio di alta qualità, i grani che rappresentano il substrato nutritivo, dovrebbero essere completamente colonizzati da un filo di bianco micelio che deve apparire altamente attivo e che talvolta in superficie, si presenta lucente. Non si debbono presentare macchie causate da altri microrganismi ed odore acido. Non ci debbono già essere dei giovani corpi fruttiferi che spuntano fuori dai contenitori. In caso di un troppo prolungato stoccaggio del micelio, si potrebbero presentare degli spazi, tra la superficie del micelio e quella del suo contenitore e, la superficie del micelio, potrebbe presentarsi colorata di giallo; all’interno del contenitore in seguito ad una carenza di ossigeno si potrebbero formare delle goccioline di acqua gialla o bruna. Un micelio contaminato presenta delle macchie verdi od arancione alla sua superficie, un odore cattivo, acido e delle goccioline di color giallo o bruno arancione.Il micelio, frequentemente chiamato “ inoculum “ , in definitiva è il tessuto vegetativo del fungo e consiste in un terreno colturale che è stato ben permeato dal micelio. Il micelio di Shiitake commercialmente preparato con i pioli di legno è conosciuto come “Plugs“ ovvero tappo – tassello, mentre, quello preparato su segatura arricchita è chiamato “Sawdust Spawn“ (Przybylowics and Donogue,1988; Kozak and Krawczyk, 1989).Recentemente comunque, il micelio di Shiitake è preparato con i grani di cereali ( Mata et Al.1988 ). Il processo che prevede l’introduzione del micelio all’interno del substrato di coltivazione è chiamato “Inoculazione o Semina “. Una adeguata semina è quella che prevede l’uso di un micelio che è capace di una rapida crescita quando deve invadere un substrato particolare (Leatham and Griffin, 1984). Lo Shiitake  coltivato su un substrato sterilizzato, deve avere un vantaggio nella competizione che deve affrontare nei confronti degli altri colonizzatori che potenzialmente possono utilizzare lo stesso spazio e gli stessi nutrienti. Quando per la coltivazione dello Shiitake si utilizzano dei substrati alternativi come ad esempio la paglia e la polpa di caffè solo pastorizzate e quindi, non le segature tradizionali, i ceppi di micelio debbono essere selezionati con molta attenzione e la loro abilità deve essere migliorata attraverso l’uso di un micelio arricchito, supplementato. La capacità di un micelio a crescere su un substrato lignocellulosico è in relazione con il suo vigore e con la sua capacità di attivare un meccanismo fisiologico che sfrutti adeguatamente quel substrato (Buswell et Al. 1993); questa capacità è definita “La sua abilità saprofitica competitiva“ (una definizione veramente molto carina ed appropriata a detta dello scrivente Lenaz), che è comandata dalla costituzione e dalle caratteristiche genetiche di ogni ceppo nonché dalla specificità del substrato.

Pani pronti da sterilizzare
Pani di Shiitake pronti da sterilizzare, disposti sugli scaffali, all’interno del forno di sterilizzazione

Pani già incubati
Pani già incubati, su scaffali, pronti per essere spostati nelle serre per la fruttificazione

Lenaz Raoul, esce dall’Istituto “Cerletti” di Conegliano come Enologo e come tale ha operato per diversi anni nel settore enologico. Agli inizi degli anni 1970 viene introdotto nel mondo della fungicoltura operando come tecnico di laboratorio e di Platea nell’ Agrifung, la più grande azienda italiana che preparava substrato incubato per la coltivazione del prataiolo e quello solo seminato per i Pleurotus. Suo compito era anche quello di visitare le fungaie a livello nazionale. In seguito negli anni, ha operato come ricercatore indipendente, costruendosi un impianto pilota adatto per la ricerca di substrati e procedimenti di pastorizzazione innovativi. Per circa 30 anni, si è dedicato a preparare e mettere a punto un substrato solo pastorizzato in massa, per la coltivazione dell’Eryngii e del Pioppino, oltre chiaramente, per i Pleurotus. È pure detentore di un brevetto per un substrato innovativo adatto alla coltivazione di più specie di funghi. Negli ultimi sei anni si è dedicato alla preparazione di substrati per il Cardoncello ed ai procedimenti di semisterilizzazione più appropriati cui sottoporli.

 

   

Titolo: I funghi Pleurotus

Autore: Raoul Lenaz

 

Aspetti della preparazione e della coltivazione dei Pleurotus e del Pleurotus Eryngii, il Cardoncello presente nel bacino del Mediterraneo. Come calcolare i vari arricchimenti dei substrati. Il tunnel di pastorizzazione. Riflessioni sulle pastorizzazioni e semi-sterilizzazioni e loro importante ricaduta sulle biomasse microbiologiche e, quindi, sulla selettività dei substrati. Significato della selettività.

 

I funghi Pleurotus di Raoul Lenaz – Casa Editrice BookSprint Edizioni

 

Roul con i pani
Raoul Lenaz in mezzo ai pani di Eryngii, Shiitake e Pioppino, in farmacia di incubazione