di Dario Salvatore e Michele Cerrato
Caprette Cilentane
I tempi lunghi del modello
Il lavoro fisico pesante e stentato dell’uomo è l’unico fattore dei prodotti agrari nel circondario di Vallo della Lucania: il lume della scienza comincia appena a mostrarsi in uno o due punti di esso, e vi sono ignorate quasi del tutto le buone regole pratiche (Angelo Raffaele Passaro, 2005, p.62).
Con queste parole veniva descritto sinteticamente lo stato dell’agricoltura nel Cilento nella famosa inchiesta Jacini del 1885. In questo territorio che va da Paestum a Sapri si ritrovano una serie di condizioni che contraddistinguono senza molte differenze buona parte dell’agricoltura del Mezzogiorno dell’epoca: forme di conduzione arcaiche e poco produttive (latifondo, contratto di miglioria, colonia parziaria), colture estensive e poco redditizie (graminacee), limitata circolazione di capitali sia per l’esercizio sia per il miglioramento dei fondi, sistemi di irrigazione e sfruttamento del suolo inefficienti con molte aree incolte a causa di mancate bonifiche e sistemazioni fondiarie. In questo scenario la zootecnia ha rappresentato l’elemento debole nello sviluppo economico di tali territori per buona parte della loro storia. Infatti, con il significativo aumento demografico registrato nelle campagne meridionali dell’Ottocento e la domanda alimentare che ne seguì, nuove colture estensive presero il posto di patri-pascolo. Si consideri, inoltre, la notoria penuria di capitali nelle campagne meridionali che rendeva estremamente rischioso l’immobilizzo di risorse per la stabulazione degli animali, fattore che diede al fenomeno della transumanza una sorprendente lunga vita. Non va dimenticato l’isolamento spaziale di molte comunità meridionali, il quale si tradusse in un isolamento economico con l’impossibilità di commerciare molti dei prodotti animali. Infine, la storica mancanza di una sviluppata foraggicoltura e più in generale di un’alimentazione razionale incise significativamente sia sulla produttività per capo, sia sulla riproduzione delle specie con conseguente trascuranza della selezione del bestiame. Quanto appena descritto è la radiografia di una zootecnia, che salvo alcune aree meridionali, rimase a lungo pressoché di sussistenza, concepita come un’attività a latere di quella agricola e, spesso al servizio di essa (es. gli animali da traino). La stessa inchiesta Jacini così parlava dei bovini nel Cilento:
I buoi si adoperano con vantaggio all’aratro ed al traino; le vacche danno discreta quantità di latte. Non possono dare carne al pari buona, perché mancano i pascoli atti a svilupparne i muscoli (Ivi., p.81)
La relazione dell’inchiesta offre anche i numeri del patrimonio zootecnico del circondario: 5.090 bovini e 40.932 ovicaprini e circa 12.000 suini distribuiti nel territorio cilentano per lo più secondo altimetria: i bovini e i bufali particolarmente concentranti nella zona della piana del Sele, mentre la nutrita popolazione – messa in evidenza dalla stessa relazione – di ovicaprini e suini concentrata nelle zone montuose del Cilento, molte delle quali oggi formano il territorio del Gal Casacastra.
A 76 anni di distanza da questa relazione lo studioso Ferdinando Palladino diede alle stampe uno studio condotto sull’agricoltura e la zootecnia del Cilento, che si allineava nello spirito e negli intenti alla contemporanea stagione di forte intervento pubblico per sanare il divario socioeconomico tra il Nord e il Sud del Paese. In questo studio c’è quindi molto più della semplice denuncia, c’è la volontà di proporre soluzioni. Al riguardo, risultano interessanti le disamine fatte dall’autore specialmente per il comparto zootecnico. Palladino riconosce alla zootecnia del Cilento un ruolo subordinato, sebbene strategico per la formazione dei redditi degli agricoltori. Mettendo a confronto i dati offerti dall’autore sul patrimonio zootecnico del Cilento con quelli dell’inchiesta Jacini si riscontra un aumento per tutti i segmenti del comparto, anche se ad avere una crescita più marcata sono gli ovicaprini con un aumento del 141% e soprattutto i bovini che riscontrano una crescita del 214%. Tuttavia, per quanto innegabile sia la crescita numera essa non fu viatico di una trasformazione in senso imprenditoriale delle attività zootecniche e ciò lo si comprende dalla descrizione che l’autore fa dell’articolazione territoriale di questo patrimonio. La grandezza media delle greggi viene descritta nell’ordine dei 20-30 capi nei casi più frequenti e di 60-70 capi nelle greggi più grandi, mentre poche erano quelle che superano il centinaio di capi. La dimensione media delle mandrie di bovini si presentava invece proporzionata all’estensione dei poderi e visto l’alto frazionamento della proprietà nel territorio cilentano le stalle venivano ad essere composte mediamente da 1-2 capi di razza podolica usati per la produzione di latte e formaggi e i lavori del fondo in mancanza di una adeguata meccanizzazione agricola. Questa descrizione rispecchia la fisionomia di una zootecnia a conduzione familiare non dissimile da quanto rilevato settanta anni prima dall’inchiesta Jacini. Un altro elemento di continuità con la precedente rilevazione è la concentrazione degli ovicaprini nelle zone montuose del Cilento che ne denota una specificità e una vocazione produttiva conservatasi nel tempo.
La persistenza del modello
Nello stesso anno, il 1950, lo Stato italiano impresse una decisa accelerazione alla trasformazione delle campagne italiane con il varo della riforma agraria e l’istituzionalizzazione della Cassa del Mezzogiorno. Se l’iter della riforma agraria come ormai ben noto e documentato fu alquanto travagliato a causa delle diverse posizioni ministeriali e governative all’epoca esistenti, quello che condusse invece alla formazione della Cassa fu molto più agile e tempestivo. Il nuovo ente, che nella filosofia di intervento e nella struttura tecnocratica si richiamava agli enti Beneduce e prima di quelli agli «enti nittiani», ebbe fin da subito l’obiettivo di porre celermente le basi per una rapida convergenza dell’economia meridionale con quella settentrionale. Centrale nell’agenda della Casmez fu predisporre una serie di interventi «diretti» volti a dotare i territori del Mezzogiorno delle cosiddette precondizioni allo sviluppo, prima di tutto le infrastrutture. Era opinione diffusa che per spezzare certi modelli produttivi e stili di vita arcaici propri delle campagne meridionali bisognasse prima di tutto agire sull’offerta di servizi e infrastrutture. Il Cilento, sulla scorta della rapida radiografia effettuata nel paragrafo precedente, era il candidato ideale per questo tipo di azione. Condizioni e obiettivi non vanno, però, necessariamente insieme e infatti la piega presa dall’intervento pubblico fu alquanto sfaccettata, ma bisogna procedere con ordine. Il primo decennio di vita della Cassa del Mezzogiorno è oggi considerato non solo il periodo di maggiore efficienza nel rapporto investimenti e opere realizzate, ma anche il periodo di maggiore impegno in termini assoluti in tre rispettivi rami operativi dell’ente: bonifiche, acquedotti e viabilità ordinaria. Di questa intensa stagione di intervento pubblico possiamo oggi ricostruirne la storia grazie al progetto ASET, che ha messo a disposizione degli studiosi una quantità sorprendente di materiale dell’archivio della Cassa del Mezzogiorno in formato digitale facilmente accessibile. Un primo sguardo d’insieme dell’intervento operato dalla Casmez nel Cilento rivela una sperequazione sia nella distribuzione territoriale, sia nei settori in cui l’ente agì. Infatti, come è anche lecito aspettarsi, molta attenzione fu data al comprensorio della Piana del Sele aumentando significativamente l’impegno già precedentemente dispiegato dai governi liberali e dal fascismo nella bonifica del territorio. Volendo fare un’analisi comparativa tra Piana del Sele e basso Cilento, più specificatamente i Comuni facenti oggi parte del Gal Casacastra, emerge uno scartamento significativo in termini economici e temporali. Per dare un ordine di grandezza si può dire che nel periodo considerato (1950-1960) il territorio del Gal Casacastra, comprendente ben 24 Comuni del Cilento, ricevette due soli interventi di miglioramento fondiario localizzati ad Ascea, area di riforma, mentre il Comune di Eboli da solo ne registrò 63. Si diceva poc’anzi come la differenza tra le due aree del Cilento non si strutturò solo in termini economici; infatti, delle 253 opere pubbliche portate a termine nei Comuni del Gal Casacastra durante l’intero arco di esistenza della Casmez/Agensud (1950-1992) solo 11 furono interventi di bonifica integrale. Scendendo ancora di più nell’analisi dei dati si rivela, inoltre, come di queste bonifiche la quasi totalità riguardò unicamente l’elettrificazione di contrade rurali e la loro realizzazione avvenne nel decennio successivo (1960-1970). Se ne deve dedurre come i Comuni a Sud del Sele non solo non ricevettero una vera azione di sistemazione dei territori, ma accumularono anche un ritardo originario rispetto ad altre aree del Cilento, fattore, quest’ultimo, che determinò l’insorgere di un sistema di crescita a due velocità del territorio cilentano. Queste due sole considerazioni forniscono già i primi elementi utili per comprendere il perché del perdurare di certi modelli di produzione e di consumo in alcune aree del Cilento.
Venendo alla zootecnia si rivela un’azione ancora più circoscritta nel tempo e nello spazio. Si ha documentazione presso l’Archivio centrale dello Stato di corsi di Divulgazione e assistenza tecnica finanziati dal Ministero dell’Agricoltura e da quello del Lavoro rivolti alla formazione delle maestranze agricole a partire dal 1954. Tra i corsi impartiti ve ne erano anche alcuni di zootecnia incentrati sull’aspetto della foraggicoltura mediante prove dimostrative per l’incremento zootecnico. Tali prove prevedevano il razionamento dei cicli di alimentazione al fine di evitare sperperi e aumentare la salute e la produttività dell’animale. Data la dimensione piuttosto contenuta delle stalle in molti Comuni della provincia di Salerno (mediamente 1-2 capi bovini), ne venivano selezionate 5 o 6 nel Comune scelto per tenere il corso di zootecnia. Le stalle da selezionare dovevano essere facilmente raggiungibili dagli allevatori della zona, così da permettere loro un apprendimento tramite l’osservazione diretta. Il corso durava generalmente 2 mesi, durante i quali veniva fornito anche del mangime concentrato ad una parte delle stalle selezionate, mentre le restanti continuavano con i metodi tradizionali di alimentazione. Lo scopo era mettere a confronto i due regimi alimentari e dimostrare la superiorità di una alimentazione razionale in fatto di produttività dei capi. Per quanto i corsi fossero limitati agli aspetti dell’alimentazione degli animali (foraggicoltura e mangimi concentrati) tralasciando, quindi, gli aspetti gestionali di una moderna azienda zootecnica, furono sicuramente un primo tentativo di fornire una preparazione extrascolastica e specialistica ad una fascia sociale, che in territori come quelli del Cilento rappresentava la maggioranza della popolazione in età da lavoro. Il vero problema di questi corsi stava nel loro numero esiguo a livello provinciale, che diventava nullo se consideriamo i 24 Comuni del Gal Casacastra. Questo dato, aggiunto a quello dei miglioramenti fondiari e delle bonifiche integrali appesantisce ancora di più il quadro del ritardo maturato da questi Comuni rispetto a quelli della Piana del Sele, i quali invece beneficiarono, stando alle informazioni fornite dell’ente di riforma (l’Organizzazione Nazionale Combattenti), di un’intesa campagna di formazione con 68 corsi teorici e pratici di zootecnia e 6 rassegne zootecniche. La mancanza di una politica organica di intervento nei territori del basso Cilento, specialmente nelle aree montane, insieme alla mancanza di sostanziali stimoli e vantaggi comparati da parte degli allevatori determinò nella sostanza la cristallizzazione in tali aree dei modelli di allevamento per autoconsumo.
Oltre il modello
Il quadro fin qui descritto sembrerebbe portare alla conclusione di un territorio tagliato completamente fuori dai processi trasformativi che investirono in quegli anni l’agricoltura e l’allevamento italiano. Da qui viene naturale pensare che lo stato attuale di quei territori sia la diretta conseguenza di quei processi appena descritti. In verità, ad un’analisi più approfondita sul piano diacronico e sincronico questa valutazione viene in parte smentita. La storia del territorio basso cilentano dimostra come, al netto di tutti i ritardi e di tutte le criticità, l’allevamento rimase una parte importante nella composizione dei redditi degli agricoltori e quest’ultimi, lungi dall’essere dei rustici conservatori della tradizione, seppero sfruttare le occasioni quando esse si presentarono. Un esempio importante viene offerto dai programmi zootecnici ordinari, ossia quei programmi elaborati annualmente dagli Ispettorati provinciali dell’agricoltura per fornire agli allevatori della provincia risorse economiche stanziate dal ministero dell’Agricoltura e dalla Camera di Commercio di Salerno, la quale contribuiva annualmente con £200.000. Un aspetto che univa i corsi di formazione e i programmi zootecnici era proprio l’Ispettorato, chiamato a programmare entrambe le forme di intervento nel territorio di propria competenza. Le fonti archivistiche ci dimostrano come la limitazione poc’anzi rilevata dei corsi di zootecnia al solo aspetto dell’alimentazione non fosse causale, ma conseguenza di una precisa scelta interpretativa compiuta dall’Ispettorato di Salerno. Il motivo va ricondotto alla voluta distinzione negli obiettivi perseguiti: i programmi zootecnici erano pensati come il canale principale di intervento nel comparto zootecnico, mentre i corsi zootecnici avevano una funzione di supporto.
Nell’analisi dei programmi giunti fino a noi (1959-1971) emergono interessanti sorprese. Nelle due rilevazioni a disposizione prima del 1966 (alcuni fascicoli sono vuoti e perciò è impossibile comporre una serie omogenea di dati) balza subito all’evidenza la diversificazione nella tipologia di allevatori beneficiari. Sono oggetto di iniziative tutti i principali segmenti del settore (bovini, suini, ovicaprini, avicoli), sia con contributi al miglioramento genetico e all’acquisto di capi, sia con agevolazioni al miglioramento del capitale fisso con il riattamento di stalle, ovili e porcilaie. Dal 1966, invece, si cambia registro e i programmi zootecnici si concentrano esclusivamente sul comparto bovino-bufalino che assorbe tutti i fondi messi a disposizione da Camera di Commercio e dal Ministero dell’Agricoltura. Il parlare di una periodizzazione dell’intervento nel settore zootecnico è giustificato dal fatto che da quella data tutti i successivi programmi ripropongono senza soluzione di continuità gli stessi obiettivi e le stesse modalità di intervento: premi per buon allevamento di bovini, tori da monta e bufalini. Le fonti palesano, perciò, un cosciente cambio di impostazione degli enti provinciali, che si orientarono decisamente verso il supporto allo sviluppo intensivo del comparto bovino-bufalino da latte, come si intuisce dalle tipologie di premi messi a disposizione. Tuttavia, prima della svolta del 1966 si può notare come tra gli allevatori beneficiari molti siano del basso Cilento. Per alcune voci di intervento, come il riattamento per ovili e porcilaie e l’acquisto di capi large-white gli allevatori dei Comuni del Gal Casacastra rappresentano la quasi totalità della domanda in quelle categorie su base provinciale. Il dato è significativo perché si sta parlando di quei segmenti dell’allevamento che rappresentano la vocazione zootecnica dei territori del basso Cilento, per lo più montani. Ciò dimostra come gli allevatori a Sud del Sele furono tutt’altro che passivi o insensibili agli stimoli pubblici e seppero fare uso dei canali di finanziamento pubblico per mettere in valore la vocazione zootecnica del territorio. Invece, dopo il cambio di paradigma operato nel 1966 non si ha più traccia degli allevatori dei 24 Comuni del Gal Casacastra e ciò è facilmente intuibile dall’indirizzo intrapreso dall’intervento pubblico. Abbandonando le forme di sussidio per l’allevamento di ovicaprini e suini in favore di premi di buon allevamento da concedere ai proprietari di bovini e bufalini da latte, il baricentro dell’intervento si spostò di fatto verso la piana del Sele, in quanto i territori ora considerati non avevano né una forte vocazione bovina-bufalina né una produzione orientata al comparto lattiero-caseario posizionandoli inevitabilmente fuori dai programmi zootecnici. La coincidenza temporale della svolta nei programmi con il varo del secondo Piano Verde induce all’ipotesi che il cambio non sia casuale, dato che il proposito perseguito dai Piani era quello di trasformare in senso industriale le attività connesse al settore agricolo e i bovini si prestavano meglio allo scopo.
I programmi zootecnici dimostrano una sensibilità degli allevatori dei Comuni del Gal Casacastra di fronte alle possibilità offerte dal pubblico, ma non è l’unico caso. Infatti, un dato forse ancora più interessante viene dal settore dell’assistenza tecnica offerta dai centri di assistenza tecnica agricola (CAT). I Comuni appartenenti al Gal Casacastra rappresentano il 25% di tutta l’assistenza tecnica svolta a livello provinciale e l’11,62% a livello regionale dei CAT nel cinquantennio postbellico. Di questo 25% la quasi totalità degli interventi è assorbita dal solo Comune di Casaletto Spartano con progetti variegati come la costruzione di una tacchinaia, di silos oppure di laghetti artificiali. Un’ampiezza di opere che si concentra in un arco temporale abbastanza delimitato (1972-1977). Tale dato conferma l’attitudine di questi territori a sfruttare intelligentemente, quando se ne presenti l’opportunità, le risorse elargite dall’attore pubblico per ovviare alla difficoltà ambientali specialmente nel rastrellamento dei capitali di investimento necessari. Un ultimo dato sempre riguardante l’attività della Casmez è quella dei progetti speciali, ossia progetti organici a carattere intersettoriale istituiti nel 1971, ma entrati a pieno regime dal 1975. L’area dell’odierno Gal Casacastra fu oggetto di 29 progetti, di cui 13 a carattere agricolo-zootecnico raggruppati tra il 1980 e il 1990. Anche in questo settore di intervento i progetti si dimostrano variegati sia per la destinazione (miglioramento dei pascoli montani, acquedotti rurali, canali di bonifica) sia per i Comuni destinatari (da Casaletto Spartano passando per Morigerati arrivando fino Caselle in Pittari). Unendo i vari canali di intervento predisposti dalla Cassa del Mezzogiorno diventa chiaro come dal 1970 una parte del Cilento meridionale e in modo particolare Casaletto Spartano e i Comuni limitrofi riuscirono a far uso di fondi pubblici per esprimere al meglio la vocazione zootecnica di questa parte del territorio cilentano. L’azione pubblica diventò, così, un fattore sostitutivo che permise in questo frangente di lenire in parte il ritardo maturato a causa proprio della programmazione del decennio precedente. Il risvolto preso nel decennio 1970-1980 mette ancora più in chiaro come il Cilento e specialmente l’area montana non sia mai stato un territorio immobile, fuori dal tempo e dalle trasformazioni in atto nella società e nell’economia italiana del tempo. A dimostrazione del fatto che gli ultimi dati presentati non siano tentativi estemporanei ci sono le richieste di agevolazioni industriali per nuovi impianti o ampliamenti presentate alla Casmez da imprese sorte in questa parte del Cilento e legate al ramo zootecnico. Va chiarito come il numero sia estremamente contenuto (meno di una decina) e sia anche circoscritto nel tempo (fine anni Ottanta e inizio anni Novanta), ma è proprio quest’ultimo dato che aiuta a comprendere la natura del fenomeno osservato. Probabilmente una parte del territorio del Cilento meridionale è riuscita ad uscire dalla gabbia dell’autoconsumo intorno agli anni Settanta, periodo in cui si verifica una fase di innesco di una serie di processi trasformativi in senso imprenditoriale delle attività zootecniche di una ristretta fascia territoriale dell’entroterra cilentano. A questa fase seguì quella di propagazione sul finire degli Ottanta, in cui si rivela il consolidamento delle attività zootecniche avviate nel decennio precedente grazie alle forme di supporto agevolato per l’accesso al credito garantito dalla Casmez nella parte finale della sua esistenza.
È evidente come questo processo da solo è insufficiente a determinare una trasformazione organica delle attività agricole di questa parte del Cilento, anche perché sia nei tempi che nei numeri il fenomeno rimase molto distante dal caso virtuoso per antonomasia che è la Piana del Sele. Tuttavia, al netto di queste considerazioni è pur sempre importante constatare il duplice impatto avuto dalla programmazione pubblica in questa parte del Cilento: un carattere quasi «punitivo» degli interventi nei primi anni Cinquanta e Sessanta che prediligendo altre aeree condannarono queste ad un pesante ritardo agricolo e zootecnico e un carattere «propositivo» negli anni Settanta e Ottanta che permise a questo territorio di provare ad andare oltre il modello dell’autoconsumo. Questo procedere a singhiozzo e per aree circoscritte ha portato oggi ad avere nell’area del Cilento un quadro zootecnico marcatamente sbilanciato. I dati della Banca Dati Nazionale dell’Anagrafe Veterinaria mostrano la coesistenza negli stessi Comuni di pochi allevamenti di medie e grosse dimensioni e di una grossa platea di allevamenti di natura strettamente familiare e autoreferenziale. Le asimmetrie sono particolarmente evidenti proprio in quei Comuni oggetto dell’intervento «propulsivo» iniziato negli anni Settanta, a dimostrazione di come la mancanza di una organica e coerente programmazione abbia generato squilibri nella crescita del comparto ancora oggi perfettamente riscontrabili. A Casaletto Spartano, per fare un esempio, solo il 10% degli allevamenti presenta un numero di capi superiore ai 50, eppure quest’ultimi detengono oggi il 40% del patrimonio bovino del territorio dell’intero Comune. Estendendo da Casaletto il raggio d’analisi si riscontra un simile rapporto nei Comuni vicini certificando sia la diffusione dello sviluppo del comparto in una prospettiva areale, sia la diffusione di quelle distorsioni strutturali prima evidenziate. A Torraca il 31% degli allevamenti detiene il 71% del patrimonio bovino, a Tortorella il 35% ne possiede il 67,5%, a Morigerati il 33% ha il 69%.
In conclusione, lo studio condotto ha permesso di mettere in risalto l’importanza di una giusta calibrazione dell’intervento pubblico ai fini di un efficace stimolazione delle forze produttive di un determinato territorio. Questi aspetti richiamano alle proprie responsabilità i policy makers, i quali allora come oggi sono chiamati a decidere strategie di sviluppo nella consapevolezza, si spera, che qualunque scelta di allocazioni di risorse verso un obiettivo o un’area comporta spesso lo spostamento di risorse da altri settori o territori. Nel dire ciò ci si vuole rifare proprio all’esperienza storica mostrata. Il ritardo di cui si è parlato nella prima stagione di interventi non fu l’esito di un mero abbandono del territorio. Tutt’altro, fu la scelta di investire risorse, appunto, in un senso piuttosto che in un altro. Si è detto come i Comuni raggruppati oggi nel Gal Casacastra non ebbero nei fatti una vera e propria azione di sistemazione dei territori e di bonifica. Tale dato acquista una valenza diversa alla luce di uno sguardo complessivo delle opere realizzate dalla Casmez in questa parte del Cilento. I settori della viabilità ordinaria, dell’edilizia scolastica e degli acquedotti e fognature assorbirono il 68% di tutti gli aiuti predisposti dalla Cassa del Mezzogiorno, a dimostrazione di come all’epoca fu fatta una chiara scelta di campo prediligendo interventi con risvolti principalmente sociali, piuttosto che economici. Questi interventi considerati nella loro valenza sociale furono necessari per rompere l’isolamento spaziale che condizionava questo territorio e per garantire dei servizi minimi essenziali alla popolazione di questa parte di «osso» del Meridione. In modo altrettanto simile la scelta fatta con i programmi zootecnici dopo il 1966 rispose prima di tutto a paradigmi produttivistici propri dell’epoca e secondariamente alla valutazione, rivelatasi poi corretta, che la bufala avrebbe potuto rappresentare un grosso volano all’economia della provincia di Salerno, ma non necessariamente per tutti i Comuni che la componevano. Ogni scelta di allocazione di risorse, dunque, comporta per quanto razionalmente ineccepibili lo scostamento da altri settori o aree di intervento. Il contributo che ci si augura possa aver dato questo studio tramite un’analisi storico-empirica è proprio quello di evidenziare l’importanza che riveste la consapevolezza delle scelte, ossia la valutazione dei costi-benefici nella programmazione pubblica secondo una scaletta di priorità stabilita dal decisore pubblico che ne è sia l’autore che il garante. La capacità dei policy makers di saper elaborare forme di intervento aderenti alle vocazioni e possibilità di un territorio può diventare a tutti gli effetti un vero e proprio fattore allo sviluppo del territorio facendo la differenza tra un intervento produttivo ed uno improduttivo o, se si vuole, tra un intervento «punitivo» e uno «propulsivo».
Bibliografia
Ferdinando Palladino, Aspetti e problemi dell’agricoltura cilentana, Roma, Tip. del Senato, 1956.
Angelo Raffaele Passaro, Il Cilento nell’inchiesta agraria Jacini (1882), Casalvelino Scalo, Galzerano Editore, 2005.
Luigi Rossi, Profili socioeconomici di un Mezzogiorno minore, Acciaroli, Kronos Collana Studi sul Mezzogiorno,1992.
Emanuele Felice, Amedeo Lepore, Stefano Palermo (a cura di), La convergenza possibile. Strategie e strumenti della Cassa per il Mezzogiorno nel secondo Novecento, Bologna, Il Mulino, 2015.
O.N.C. – Sezione speciale per la riforma fondiaria in Campania, L’incremento zootecnico nel Comprensorio di Riforma della Piana del Sele, 1960.
A.A.V.V., Il sistema agricolo in Campania. Strutture, evoluzioni ed approfondimenti monografici, 2005.
Sitografia
Per un’analisi delle richieste di rinvia alle banche dati create dal progetto ASET (Archivi dello sviluppo economico territoriale) per la salvaguardia e la valorizzazione dell’intero patrimonio archivistico e bibliografico della Cassa per il Mezzogiorno/Agensud: https://aset.acs.beniculturali.it/aset-web/.
Fonti d’archivio
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Agricoltura, Direzione generale produzione agricola, Produzioni vegetali e zootecniche – caccia – pesca assistenza tecnica e istruzione professionale.
Dario Salvatore, dottorando in Storia all’Università degli Studi di Salerno è borsista nell’ambito del Progetto “NOBILI CILENTANI: Applicazione del metodo nobile ad alcune produzioni zootecniche cilentane – PNR 2014–2020” del dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Salerno. https://www.dipsumdills.it/teacher/dario-salvatore/
Michele Cerrato, Ricercatore confermato presso l’Università degli Studi di Salerno presso il dipartimento di Farmacia dove ha le cattedre di Economia e politica Agraria. https://docenti.unisa.it/003197/curriculum