di Fabio Cappelli
– Fattoria di Meleto anni ’60 (archivio Acc. Georgofili)
Si fa risalire l’inizio della mezzadria al IX secolo, quando i feudatari affidano le loro terre alle categorie più umili richiedendo in cambio servigi e parte della produzione; i contratti di mezzadria si consolidano nel periodo dei Comuni e delle Signorie, parallelamente al primo consistente sviluppo demografico. Il proprietario concede un appezzamento di terra in coltivazione a una famiglia di contadini, dividendo a metà spese e ricavi (prodotti agricoli e di allevamento); la superficie agraria – coltivi e pascoli – è commisurata ai fabbisogni alimentari della famiglia del mezzadro (per la sua metà) e costituisce il cosiddetto “podere” che, nel tempo, è integrato con casa colonica, stalla, fienile e altre strutture agricole. In Toscana, la mezzadria ha interessato circa il 60% della regione, seguendo lo sviluppo di Firenze, Arezzo, Prato e Pistoia e poi con la parte dei territori di Pisa e Siena rivolti verso Firenze; sono le zone più urbanizzate e popolate, prevalentemente collinari, vocate alla coltura di vite, ulivo e cereali; il bosco resta a disposizione del proprietario come riserva di legna e di caccia ma al mezzadro è consentito raccogliere legna e frasche per uso domestico e pascolarvi il bestiame. Sono rimaste escluse dalla mezzadria: la costa e le Maremme, meno abitate e dove prevalgono a lungo forme di latifondo, colture estensive e affitti; la Toscana dei Liguri (Lunigiana, Garfagnana, Media valle del Serchio, Montagna pistoiese) con piccole proprietà contadine o terre collettive. I Medici danno impulso alla mezzadria in quanto strumento per acquisire nuove terre e aumentare le produzioni. Il termine appoderamento sta proprio a significare, dopo il riordino fondiario, la suddivisione della proprietà in poderi, da affidare a famiglie di coloni. Nel periodo mediceo prendono forma le “fattorie”, grandi proprietà caratterizzate da tre specifici settori: il corpo principale costituito dalla villa padronale, dalle abitazioni subordinate e dalle strutture centralizzate quali cantine, tinaie, frantoi e magazzini; i poderi con le case coloniche sparse per la campagna, dove vivevano i contadini e gli animali allevati; boschi e incolti, che costituivano la riserva di legname e la bandita di caccia dei proprietari e loro invitati. Emblema di questa organizzazione territoriale può essere la fattoria La Ferdinanda di Artimino, estesa qualche migliaio di ettari: nelle porzioni superiori del Montalbano era stato perfino costituito il “Barco reale”, ampia riserva di caccia interamente recintata con muri a secco. Sull’esempio dei Medici, investono nelle terre anche aristocrazia e borghesia, che costruiscono ville e fattorie, sviluppano agricoltura e zootecnia e organizzano le loro bandite di caccia. In questo periodo si concretizza il sistema toscano “fattorie-poderi” e si cominciano a realizzare opere di sistemazione e trasformazione del paesaggio agrario di collina, sempre più modellato per stabilizzare il terreno, favorire le coltivazioni e aumentare la produttività dei campi coltivati. Inizia così a prendere forma, come indicato in letteratura e studi di settore, il cosiddetto “bel paesaggio toscano”, espressione riferita al Rinascimento ma che ancora conserva un significato attuale, nonostante le marcate differenze con il passato. Il successivo periodo lorenese è senz’altro caratterizzato dall’attenzione politica che il governo del Granducato pone nei confronti di agricoltura e territorio e delle problematiche socio-economiche che ne derivavano. Molti rapporti sullo stato delle campagne riferiscono a Pietro Leopoldo della miseria e delle insufficienti condizioni di vita dei contadini, al limite della sussistenza per le gravose condizioni imposte dai contratti di mezzadria, in particolare per le condizioni abitative e per l’onerosa suddivisione a metà della produzione. Il Granduca, nel suo articolato e ampio programma di riforme, pensa anche di modificare i patti che regolano la mezzadria, in attesa comunque di superare tale medievale rapporto attraverso livelli, affitti, frazionamenti a uso della piccola proprietà. L’opposizione dei proprietari terrieri, appoggiati dall’Accademia dei Georgofili e da alcune istituzioni religiose, impedisce però qualsiasi modifica dei patti agrari di mezzadria nonché una più equa riforma catastale. Le politiche granducali in agricoltura incidono comunque: si favorisce il commercio dei prodotti agricoli; si sviluppano nuove tecniche di sistemazione e coltivazione; si attuano consistenti bonifiche. A cavallo tra Sette e Ottocento si completa la formazione del paesaggio agrario tipico della mezzadria, caratterizzato da tre elementi imprescindibili: il modellamento dei terreni e le sistemazioni agrarie; l’alberata e le colture promiscue; la casa colonica sparsa costruita nel podere.
- Il modellamento dei terreni e le sistemazioni agrarie
La “conquista” di nuove terre – boschi, sodi, acquitrini e altri terreni collinari – da coltivare con continuità richiedeva che i campi fossero stabili e produttivi nel tempo, almeno nella misura possibile. Si attuano così imponenti modificazioni dei profili naturali: dapprima attraverso soluzioni più semplici, poi eseguendo interventi profondi e radicali, veri e propri capolavori di tecnica applicata. Per valutare appieno la portata di queste trasformazioni, dobbiamo sempre considerare che le nostre colline sono state modellate dal lavoro manuale di migliaia di contadini impiegando piccone, pala, vanga, zappa e mazza, coadiuvati dalla forza animale dei buoi e dei cavalli. Riteniamo che l’argomento, in questa sede, sia ampiamente noto e quindi ne elenchiamo brevemente le forme adottate. In pianura si creano campi rettangolari mediamente di 30×100 metri arati per lungo, riportando la terra verso il centro per ottenerne la baulatura con scarico laterale delle acque piovane lungo le prode, fossetti di raccolta delle acque che formano poi un sistema organico di deflusso con i campi limitrofi. Vengono costituite anche le capezzagne, strisce di terra non arata lungo i lati corti del campo che servono ai buoi per girare e tornare indietro durante il lavoro. Capitava, forse più frequentemente di quanto si possa pensare, che molti campi (ancora oggi sono così) non fossero proprio rettangolari, perché «…nati dal sommarsi delle iniziative individuali nei dissodamenti e nelle nuove coltivazioni» (R. Stopani, 1989) o per semplici adattamenti alla morfologia naturale. Nel Volterrano è ancora in uso l’espressione campi a pigola per definire il sistema irregolare (a spigolo) di campi e prode. Quando i campi sono formati da strisce strette e ripetute vengono definiti a porca e, per analogia, i lati corti non arati sono chiamati porcarecce. Sono però i terreni di collina, maggiormente diffusi, a essere oggetto di profonde modificazioni, attraverso le sistemazioni a cavalcapoggio, girapoggio, ciglioni, lunette e terrazzamenti. In contemporanea, si aprono fossi di guardia, fossette livellari e fossi di scolo. Gli interventi eseguiti crescono di consistenza in relazione alle caratteristiche geomorfologiche dei versanti lavorati e, anche, della destinazione agronomica dei campi. Nella seconda metà del Settecento, sotto la spinta riformatrice del Granduca Leopoldo, … «i contadini toscani e gli agronomi che ne illuminano l’esperienza sono all’avanguardia nella diffusione e perfezionamento delle sistemazioni collinari e montane» (E. Sereni, 1976). A metà del XVIII secolo viene fondata a Firenze l’Accademia dei Georgofili, Istituzione alla quale faranno riferimento sia il governo granducale sia i proprietari dei terreni agricoli, in special modo nobili e borghesia. Proprio nel Giornale Agrario Toscano (Acc. Georgofili, 1828) Cosimo Ridolfi illustra le più consistenti forme di modellamento e sistemazione agraria dei terreni argillosi, attuate nelle sue fattorie in Valdelsa: spina e colmata di monte. Quest’ultimo caso è particolarmente significativo delle grandi modifiche prodotte: consisteva nell’aprire, dall’alto, fossi provvisori lungo le linee di massima pendenza per incanalare l’erosione; con adeguati sbarramenti a valle si favoriva la sedimentazione dei detriti e la creazione di nuovi campi pianeggianti. Ripetendo per anni l’operazione, si trasformava di fatto l’assetto naturale dei luoghi: si abbassava la cima rialzando il piano, si colmavano avvallamenti, si eliminavano le creste, si modellava l’area secondo forme regolari e stabili, favorevoli alle coltivazioni di cereali e foraggere e, nel tempo, anche della vite.
- Il paesaggio agrario
Con l’avanzare delle sistemazioni e del riassetto agrario, il paesaggio agrario della mezzadria viene storicamente definito dell’alberata toscana perché contraddistinto, al margine dei campi, dalla piantagione in filari di alberi: generalmente si realizzano due filari vicini di vite maritata al testucchio (acero campestre, detto anche “oppio”), albero che non solo serve di sostegno alla vite ma, allevato con la chioma “a capitozza”, integra l’alimentazione bovina. Gelsi, ulivi, salici (detti “salci”, i cui giovani rami servono per le legature) e alberi da frutto completano la dotazione arborea dei campi e delle prode. In collina si realizzavano campi stretti (15-30 m) disposti orizzontalmente, circondati e difesi da un capillare sistema di scoline e fossi; altrimenti si passa al gradonamento con ciglioni e terrazzi. Al centro dei campi si concentrano i seminativi, secondo schemi di rotazione consolidati: in genere, tre anni di foraggere leguminose, uno/due di grano, uno di mais, uno di maggese (riposo) o sovescio; per le lavorazioni del terreno e i raccolti si impiegano i buoi, anche produttori di letame, fertilizzante base del podere; lungo ciglioni e gradoni, più stretti, si doveva spesso procedere con vanga e zappa. Anche le scarpate e tutte le altre piccole porzioni di terra interne al podere contribuiscono alla produzione: olivi, alberi da frutto, gelsi, salici, giaggiolo, erba, noci, querce da ghianda (roverella e leccio), nocciolo. L’insieme agronomico viene definito coltura promiscua e diventa un’altra caratteristica peculiare della mezzadria, recepita come tale anche nelle classificazioni catastali. I poderi di collina non erano molto estesi: la loro superficie, cresciuta un po’ nel tempo, è sempre inferiore ai 10 ettari, mediamente 5-6. Si è così costituito un paesaggio a mosaico che, pur cambiando a seconda delle zone e del clima, ha mantenuto inalterate le sue componenti: alternanza di campi e campetti, boschi, pascoli e sodi, castagneti da frutto, piante sparse e boschetti, strade poderali e vicinali, siepi, orti; parchi, giardini e viali alberati intorno a ville e fattorie. Non sono mancate piantagioni di cipressi, lecci, pini domestici e arbusti sempreverdi, impiegati come abbellimento e talvolta anche per delimitare confini. Abbastanza diffusa è stata anche la costruzione di opere di tipo religioso, tuttora presenti, come oratori, tabernacoli e marginette. Il bel paesaggio rimane immutato solo grazie al faticoso e continuo lavoro dei mezzadri e delle loro famiglie.
Residuo attuale dell’alberata toscana (foto Fabio Cappelli)
- La casa colonica
I nuovi appoderamenti del periodo mediceo portano un primo significativo sviluppo non solo dei villaggi rurali ma anche delle case sparse; queste ultime sono ancora di livello infimo, praticamente delle capanne ove vivono insieme mezzadri e animali, ma prende corpo l’idea di abitare nel podere, quanto meno per meglio accudire il bestiame. L’insediamento sparso sarebbe diventato in seguito una caratteristica quasi esclusiva della Toscana e la casa isolata nel podere non più un ricovero provvisorio, ma una costruzione stabile da servire come abitazione per la famiglia del mezzadro e nello stesso tempo dotata dei locali minimi necessari quali stalla, fienile e magazzino/granaio. Al periodo mediceo risalgono le case torri, i fabbricati più compatti, regolari e squadrati, edifici lineari e quasi fortificati. Il Granduca Pietro Leopoldo, ostacolato da grandi proprietari e Georgofili sulla riforma dei contratti di mezzadria, incentiva il miglioramento delle infime condizioni di vita dei coloni: con editto del 1784 stabilisce contributi per i proprietari terrieri che costruiscono nuove case rurali, già studiate e progettate dall’Accademia dei Georgofili secondo specifiche tipologie per poderi di pianura, collina e montagna. Grazie all’aiuto governativo, si diffonde ovunque l’edilizia rurale; i modelli lorenesi saranno poi ripresi anche nel secolo successivo, nel periodo napoleonico e in quello unitario.
Casa colonica leopoldina e successiva aggiunta (foto E. Biagini, archivio Acc. Georgofili)
Le case coloniche leopoldine hanno alcune comuni caratteristiche principali, molto significative: l’abitazione è al primo piano, mentre al piano terra ci sono magazzini, cantine e depositi; in montagna è frequente trovare la stalla sotto la cucina per usufruire del “calore” animale; elementi costanti sono le torrette (1-2, definite in seguito piccionaie), la loggia coperta, gli ingressi ad arco della stalla o delle rimesse, le scale chiuse e riparate, spesso addossate alle pareti esterne per non togliere volume all’interno. La cucina è la stanza più grande dell’abitazione e dà accesso diretto alle camere; è dotata di ampio camino e di focolari per la cottura con brace e carbonella; le cappe dei camini sono ampie e in montagna sono di forma allungata a coprire una doppia fila di sedute in pietra. Tutte le finestre sono piccole per stabilizzare la temperatura interna. In collina la stalla può essere adiacente alla casa, oppure staccata insieme alla concimaia; il fienile è vicino alla stalla e caratterizzato da finestrelle con mattoni a spigolo per far circolare l’aria senza che vi penetri la pioggia. I materiali impiegati per le costruzioni sono di provenienza locale: le classiche pietre toscane – pietra serena, pietra forte, macigno e alberese – mattoni e tegole d’argilla, paglia, travi e travetti di castagno e di quercia. Ai fabbricati principali sono poi addossate piccole strutture per l’allevamento degli animali: capanne, pollaio, porcilaia e altre. Il tutto è raccordato dall’aia, il piazzale esterno massicciato in pietra dove si svolgono alcune importanti attività agricole (ad esempio la battitura del grano), ma anche di svago e di tipo familiare. Nel tempo, molte case coloniche sono diventate a “crescita continua”, ampliate in funzione delle esigenze familiari e di nuove necessità agricole. Con l’abbandono della mezzadria e delle campagne, la maggior parte di questo patrimonio edilizio – architettonico è stato venduto e trasformato in civili abitazioni, bed&breakfast e altro, seguendo un percorso di trasformazione parallelo ai poderi e al paesaggio agrario in genere, così come si può osservare oggi percorrendo le campagne.
Estratto da Paesaggi rurali della Toscana di F. Cappelli e P. Degli Antoni. Libreria Salvemini, Firenze 2021.
Fabio Cappelli: laurea in Scienze forestali (Università di Firenze), abilitazione alla professione di agronomo-forestale. Ex Funzionario C.F.S., Socio corrispondente dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali. Durante la professione si è occupato di selvicoltura privata e della gestione di Riserve naturali e Foreste demaniali statali. Autore di libri e pubblicazioni di tipo scientifico e divulgativo in materia di boschi, territorio e ambiente.