Il Vino santo affumicato dell’alta valle del Tevere
di Ezio Casali
In Umbria, in provincia di Perugia, nella zona che fondamentalmente corrisponde alla D.O.C. Colli altotiberini (comprendente i comuni di San Giustino, Citerna, Città di Castello, Monte S. Maria Tiberina, Montone, Umbertide, Gubbio, Perugia) si produce, utilizzando Trebbiano toscano, Grechetto, ma anche Malvasia, Canaiolo, Vernaccia, ecc., uno dei vini più particolari dell’ampio panorama enologico italiano e che, per certi versi, rappresenta in maniera emblematica il forte legame tra produzioni vitivinicole e territorio: il vino santo affumicato.
Caratello del Consorzio Vino santo affumicato dell’alta valle del Tevere utilizzato per la vinificazione
Immagine: per gentile concessione dell’azienda agricola Famiglia Morganti (Montone, PG)
Il Vinsanto, che storicamente ricopre grande importanza nella produzione vinicola toscana ed umbra, ha da sempre assunto nell’alta valle del Tevere una particolare connotazione, legata all’opera delle donne che avevano il compito di selezionare i migliori grappoli da destinare all’appassimento per poi porli ad appassire nelle grandi cucine delle case coloniche, vicino al camino, dove si impregnavano del fumo della legna.
Ma nell’Ottocento, quando in zona si affermò la coltura del tabacco, il legame tra vino e fumo divenne ancora più stretto: i grappoli d’uva (raccolta con un certo anticipo per garantirsi una buccia più “dura” e quindi resistente all’appassimento, che si protrae fino a dicembre – gennaio) venivano legati a due a due con lo spago a formare le “coppiole”, che poi venivano messe ad appassire negli stessi locali dove si essiccavano le foglie di tabacco e dove stufe o camini erano perennemente accesi.
In questo modo il fumo permeava ed impregnava gli acini e si ritrovava il suo aroma nel vino prodotto, che acquistava così il tipico sentore di affumicato.
Al termine del processo di appassimento i grappoli vengono diraspati, pigiati, ed il processo di fermentazione viene condotto in botti di legno: è a questo punto che entrano in gioco i lieviti o, meglio, il lievito madre che ogni famiglia ieri e ogni produttore oggi conserva con grande cura ed amore.
Grappoli appesi ad appassire
Immagine: per gentile concessione dell’azienda agricola Famiglia Morganti (Montone, PG)
L’intervento di lieviti “selezionati” (tra virgolette perché è stata una selezione guidata esclusivamente dalla natura e dalle capacità, per certi versi empiriche, degli agricoltori) risulta necessaria in quanto l’elevato tenore zuccherino del mosto impedirebbe una corretta fermentazione se a condurla non fossero lieviti adattatisi a lavorare in queste particolari condizioni operative.
Terminata la fermentazione il vino rimane (spesso nello stesso caratello) a riposare per un periodo di almeno tre anni in locali ben areati ed in balia dei cambiamenti stagionali e delle relative escursioni termiche tra estate e inverno, per poi essere imbottigliato.
Attualmente, grazie alla meritoria opera di alcuni agricoltori della zona (e con l’intervento di Slow Food, del quale il Vino santo affumicato dell’alta valle del Tevere è un Presidio), si sta cercando di riportare in auge i fasti di questo straordinario prodotto, e proprio della sua promozione e tutela si occupa il Consorzio costituitosi proprio per raggiungere tali obiettivi.
Al consumo il Vino santo affumicato presenta caratteristiche tipiche e fortemente legate al metodo di ottenimento:
– alla vista il colore è colore ambrato, a volte con tonalità tendenti al marrone (che ricordano il miele di castagno), Molto consistente, forma archetti molto stretti;
– all’olfatto presenta sentori di miele di castagno (in accordo con l’analisi visiva), frutta secca, cuoio, vaniglia, liquirizia, spezie, ed un delicato aroma empireumatico di tostato e, soprattutto, di affumicato che integra, senza prevaricazioni, il complesso ventaglio aromatico;
– al gusto si presenta dolce ma non stucchevole (a riprova che il considerevole residuo zuccherino viene ben contrastato dalla componente dura degli acidi), morbido, equilibrato. La persistenza retro olfattiva è lunga (si raggiungono, e si superano, con tranquillità i 15 secondi, arrivando anche a 30 e più).
Bottiglia, particolare della chiusura con ceralacca e fascetta “Presidio Slow Food” ed indicazione “bottiglia non destinata alla vendita”
Immagine: per gentile concessione dell’azienda agricola Famiglia Morganti (Montone, PG)
Il Vino santo affumicato dell’alta valle del Tevere è un vino che, più che bevuto, va davvero assaporato e centellinato per apprezzarne al meglio tutte le sue caratteristiche, che si esprimono al loro massimo livello anche, e forse soprattutto, quando lo si degusta senza abbinamento alcuno.
Infatti, solo degustando “così com’è” un vino, specie se dotato di una grande e piacevolissima complessità aromatica olfattiva e gustativa come in questo caso, si riesce a concentrarsi sulle caratteristiche organolettiche del vino stesso, e le percezioni sensoriali non vengono alterate dalle interazioni con altri cibi.
Nulla vieta, però, di accompagnarlo a del buon cibo, ed in questo caso l’abbinamento non può che orientarsi verso i dolci ed in particolare verso quelli della tradizione umbra quali il torcolo o i crostini ubriachi (dolce tipico di Città di Castello a base di mollica di pane, caffè, cioccolato, mandorle, alchermes e rum).
Ma il rapporto vino – tabacco non si ferma alla fase di appassimento delle uve; si narra che i coltivatori di tabacco, per mantenersi una piccola parte della produzione (che andava, ovviamente, consegnata allo Stato), sotterravano le foglie di tabacco chiuse in una scatola di latta. Quando poi si dissotterrava la scatola per autoprodursi rudimentali sigari casalinghi, era consuetudine bagnare le foglie nel vino santo per ammorbidirle, e l’usanza di aspergere i sigari di vino santo prima di fumarli si pratica ancora oggi.
Infine, va giustamente ricordato come, allo stato attuale, alla produzione di questo straordinario vino non segue ancora la vendita in quanto le aziende non sono ancora strutturate, dal punto di vista logistico e normativo, a questo passaggio (fondamentale) della filiera.
Proprio per questo i produttori si sono organizzati nel Consorzio vino santo dell’alta valle del Tevere che, come si accennava in precedenza, ha l’importantissimo compito, innanzitutto, di tutelare il sistema tradizionale di produzione, ma anche quello di promuovere e far conoscere agli appassionati enofili questa interessantissima e particolare produzione di nicchia.
Si può ricordare, ad esempio, il grande successo del Vino santo dell’alta valle del Tevere alla presentazione al Vinitaly 2018 nell’ambito del seminario “Vini Santi: un patrimonio italiano”, dove gli apprezzamenti, non solo al prodotto ma anche al progetto di rivalutazione del territorio dell’areale nel suo complesso, da parte degli addetti ai lavori sono stati numerosi ed entusiastici.
Un grande impulso è venuto dall’appoggio della Fondazione Slow Food per la biodiversità onlus che ha inserito il Vino santo affumicato dell’alta valle del Tevere tra i Presidi Slow Food, i quali hanno l’obiettivo di sostenere le piccole produzioni tradizionali che rischiano di scomparire, valorizzare territori, recuperare antichi mestieri e tecniche di lavorazione, salvare dall’estinzione razze autoctone e varietà di ortaggi e frutta.
Una degli obiettivi può essere quello di arrivare ad una modifica del disciplinare della D.O.C. “Colli Altotiberini” che attualmente prevede le tipologie:
– bianco (anche nelle tipologie spumante e superiore);
– rosso (anche nelle tipologie novello e riserva);
– rosato;
– Grechetto;
– Trebbiano;
– Cabernet Sauvignon (anche nella tipologia Riserva);
– Merlot (anche nella tipologia Riserva);
– Sangiovese (anche nella tipologia Riserva),
implementando la tipologia Vinsanto e permettendo così una reale e concreta valorizzazione del prodotto e del territorio che, così supportati, potrebbero realmente avvalersi del valore aggiunto legato alla possibilità di fregiarsi di una Denominazione di Origine Protetta.
Vanno però sottolineate le difficoltà legate al riconoscimento a DOP in ambito vinicolo di un prodotto che di fatto risulta aromatizzato, il che lo porterebbe non nell’ambito del Reg. 1803/13 (il quale definisce i prodotti vitivinicoli aromatizzati come bevande alcoliche derivanti dai prodotti vitivinicoli che hanno subito un’aromatizzazione), bensì in quello del Reg. (UE) 251/14 che stabilisce tre categorie:
- Vini aromatizzati
- Bevande aromatizzate a base di vino
- Cocktail aromatizzati di prodotti vitivinicoli.
Una soluzione potrebbe essere quindi quella di addivenire ad un riconoscimento come I.G. (Indicazione Geografica) nella categoria Vini aromatizzati (si segnala che in Italia l’unica I.G. riconosciuta in tale categoria è il “Vermouth di Torino”), anche se le modalità di ottenimento, e quindi di aromatizzazione, del Vino Santo affumicato non risultano assimilabili alle tecniche consuete (quali l’infusione), ma sono invece legate ad una precisa situazione ambientale ed operativa la quale non prevede che gli aromi “entrino” nel vino già prodotto, bensì interessino la materia prima, che verrà poi lavorata in un momento successivo.
Ezio Casali, iscritto all’Albo Provinciale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati di Cremona, insegna presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “Stanga” di Cremona. Si occupa di autocontrollo, soprattutto negli agriturismi, e di agricoltura multifunzionale. Curriculum vitae >>>