di Silvio Franco
Introduzione
L’impatto ambientale degli allevamenti è senza dubbio un tema molto sentito, sia nell’opinione pubblica che nelle decisioni di politica agricola.
Negli ultimi decenni, e negli anni recenti in misura ancora più frequente, sono state proposte ed applicate diverse metodologie che puntano a quantificare tali impatti.
Fra questi strumenti di valutazione, uno che ha raggiunto una discreta popolarità è il Life Cycle Assessment (LCA), attraverso il quale è possibile calcolare gli impatti ambientali di tutte le fasi del processo di produzione di un determinato prodotto. Molto utilizzati sono anche dei modelli di calcolo che consentono di valutare le emissioni di GHG (gas a effetto serra) prodotte dai capi allevati all’interno di un territorio o di una specifica azienda agricola. La loro popolarità, soprattutto a livello scientifico, è giustificata sia dalla rilevanza assoluta di tale fenomeno, sia dagli effetti sui cambiamenti climatici, un tema oggetto di grande attenzione da parte di studiosi, decision-maker e cittadini.
Queste metodologie, tuttavia, si limitano a valutare l’impatto ambientale degli allevamenti e dei loro prodotti senza fornire alcuna indicazione rispetto alla dotazione di capitale naturale presente nelle aziende o nei territori per condurre tali attività. In altre parole, esse forniscono informazioni dettagliate e rigorose sul consumo di risorse naturali, senza però fare alcun confronto con la disponibilità di tali risorse. Quindi, se da un lato sono molto utili per confrontare l’impatto dei prodotti finali degli allevamenti (per esempio il latte) con altri prodotti/processi oppure per paragonare l’impatto complessivo del settore zootecnico con altri settori produttivi, non sono in grado di fornire alcuna informazione sulla sostenibilità delle attività di allevamento [1]. Questo perché, vale la pena ribadirlo, tutti gli indicatori d’impatto esprimono il livello di domanda di risorse naturali da parte di una determinata attività ma, senza una comparazione con l’offerta di tali risorse, è impossibile tradurre la dimensione dell’impatto in termini di sostenibilità. Differentemente dai metodi citati, l’impronta ecologica consente di eseguire un confronto fra la domanda di capitale naturale da parte di un’attività economica, espressa dall’indicatore Ecological Footprint (EF), e l’offerta di tale capitale, misurata dalla BioCapacity (BC), all’interno di un determinato territorio [2. L’EF misura il consumo di risorse naturali da parte di una certa attività umana in un dato territorio, e si esprime in ettari globali; indica quindi quanta area bio-produttiva è necessaria per sostenere le attività umane che vi svolgono. La BC, invece, misura quanta superficie bio-produttiva è disponibile in un certo territorio, considerando le aree agricole, i pascoli, i boschi, le aree urbanizzate e bacini idrici. La comparazione fra questi due valori, definita Ecological Balance (EB=BC-EF), esprime il bilancio fra disponibilità e utilizzo di capitale naturale, evidenziando una situazione di surplus/deficit ambientale a cui corrisponde una condizione di sostenibilità/insostenibilità.
In questa nota tale metodologia è stata applicata al settore zootecnico italiano con l’obiettivo di fornire un quadro sintetico della sostenibilità ambientale degli allevamenti a scala regionale.
Metodologia
Calcolo dell’EF degli allevamenti nelle regioni
Per il calcolo dell’EF ci si è basati sulle emissioni di CO2 equivalente dei capi allevati, opportunamente convertite in termini di richiesta di risorse naturali ed espresse attraverso la superficie bio-produttiva necessaria ad assorbite tali emissioni.
Il primo passaggio è consistito nella valutazione delle emissioni standard (espresse in kg CO2eq/anno) per ciascuna delle tipologie di capi allevati: bovini (distinti fra vacche da latte ed altri bovini), bufalini (distinti fra bufale e altri bufalini), suini (distinti fra scrofe ed altri suini), ovini, caprini, avicoli (distinti fra polli da carne, ovaiole e altri avicoli). A questo scopo sono state considerate le emissioni di CH4 (metano), dovute alla fermentazione enterica dei ruminanti e alla gestione delle deiezioni, e di N2O (protossido di azoto) relativi alle escrezioni in stalla (liquame e letame) e al pascolo [3]. Tali emissioni sono state convertite in CO2 equivalente attraverso i relativi coefficienti di conversione ed aggregate in modo da ottenere un valore complessivo per tipologia di capo.
Successivamente si è proceduto a ricostruire la numerosità dei capi per le suddette categorie nelle diverse regioni utilizzando i dati disponibili nel database dell’anagrafe zootecnica nazionale riferiti al 30 giugno 2020 [4].
Si è quindi passati al calcolo delle emissioni di CO2 eq/anno per tipologia di allevamento nelle regioni italiane e alla loro conversione in termini di EF. Per eseguire quest’ultimo passaggio, facendo riferimento alla capacità media di assorbimento di carbonio delle foreste [5] e ai fattori di conversione delle foreste in area bio-produttiva [6], si è determinata la superficie equivalente necessaria per “compensare” l’emissione di una tonnellata di CO2 equivalente da parte dei capi allevati.
Calcolo della BC regionale (distinta fra totale e agricola)
Per la BC, seguendo la metodologia base dell’impronta ecologica [2], si è fatto riferimento alla presenza delle diverse coperture del suolo ed alla loro capacità di fornire servizi ecosistemici.
Si è quindi determinata le superficie ricadente in ciascuna tipologia di uso del suolo (aree agricole, aree a pascolo, aree forestali, aree edificate, bacini idrici) eseguendo una riclassificazione della cartografia Corine Land Cover (CLC, 2018) a livello regionale. Successivamente si è proceduto all’estrazione dei coefficienti di conversione dal database del Global Footprint Network, che permettono di convertire l’estensione delle varie tipologie di copertura del suolo in ettari globali (gha) di superficie bio-produttiva [6]. Infine, è stata calcolata la BC agricola (relativa alle sole aree agricole e a pascolo) e totale per ciascuna regione italiana.
Calcolo dell’EB
Per calcolare il bilancio ecologico si è semplicemente rapportata la domanda di superficie bio-produttiva degli allevamenti (espressa da EF) con la relativa offerta a scala regionale (espressa da BC) ottenendo così un indicatore percentuale della sostenibilità degli allevamenti nelle diverse regioni italiane rispetto sia all’offerta di risorse naturali da parte del solo settore agricolo, sia del territorio nel suo complesso.
Risultati
Il primo risultato dello studio è rappresentato dalla stima della domanda di risorse naturali, valutata attraverso l’indicatore di Ecological Footprint (EF), da parte delle diverse tipologie di allevamenti presenti nelle regioni italiane (figura 1).
Come si osserva dal confronto fra i dati regionali, la Lombardia presenta un impatto notevolmente superiore a tutte le altre, soprattutto a causa della dimensione del settore bovino e, in seconda battuta, suinicolo. Il valore dell’indicatore EF è quasi tre volte maggiore rispetto a quello delle regioni che seguono (Piemonte, Veneto ed Emilia- Romagna), le quali presentano un impatto della zootecnia abbastanza simile, anche se con un peso relativo leggermente diverso fra i diversi allevamenti.
Fra le altre regioni vale la pena segnalare la situazione della Sardegna, in cui gioca un ruolo importante il settore ovi-caprino, e della Campania, e in misura minore del Lazio, dove l’allevamento bufalino incide in misura significativa sul valore finale dell’EF.
Il risultato più interessante dello studio è rappresentato dalla valutazione del livello di sostenibilità degli allevamenti italiani, tenendo conto non soltanto dell’impatto della zootecnia, calcolato attraverso l’impronta ecologica, ma anche della disponibilità di risorse naturali, espressa dalla biocapacità. A questo scopo, come già accennato, è stato calcolato un indice di pressione ambientale espresso dall’incidenza percentuale dell’EF totale degli allevamenti sulla BC (agricola e totale) a livello regionale.
I risultati ottenuti sono riportati nelle ultime due colonne della tabella 1 e rappresentati graficamente nelle due mappe di figura 2.
Un primo dato interessante è legato alla quota della biocapacità nazionale assorbita dal settore zootecnico che risulta del 39,2%, se si considerano le sole aree agricole, e del 21,8%, se ci si riferisce all’intera superficie italiana. Nell’interpretare questo dato è opportuno tenere conto di almeno due aspetti che consentono di delineare un quadro più corretto della situazione.
Una prima considerazione è legata al fatto che il settore agricolo, per poter essere definito sostenibile, dovrebbe avere un’offerta di biocapacità tale da compensare la domanda di risorse naturali associata sia alla conduzione delle attività zootecniche che di coltivazione dei terreni. Da un lavoro pubblicato alcuni anni fa sulla sostenibilità dei sistemi colturali europei [7] emerge che l’insieme delle coltivazioni praticate sul territorio italiano presenta un EF totale di 36,7 milioni di gha. Lo stesso lavoro stima la BC agricola in 32,1 milioni di gha, valore analogo a quello calcolato in questo studio. Ne deriva che l’intero sistema agricolo italiano, considerando la domanda di risorse naturali dell’agricoltura e della zootecnia nel loro insieme, consuma circa una volta e mezza le risorse naturali che mette a disposizione, ed è quindi nel complesso insostenibile.
Una seconda considerazione riguarda il ruolo della zootecnia nel contribuire a tale insostenibilità. Il fatto che l’EF degli allevamenti calcolato in questo studio (12,7 milioni di gha) sia molto inferiore a quello delle coltivazioni (36,7 milioni di gha, [7]) potrebbe far pensare ad un contributo limitato del settore zootecnico sull’impatto complessivo del sistema agricolo italiano. Questo dato, però, non tiene conto di due fattori. Da un lato, deve essere considerato il ruolo delle colture destinate all’alimentazione del bestiame, il cui impatto dovrebbe essere scorporato da quello delle coltivazioni e aggiunto a quello della zootecnia. Dall’altro, non può essere ignorato che in questo studio l’EF degli allevamenti è stato valutato considerando solo le emissioni di GHG dei capi; se nel calcolo si fosse tenuto conto anche della quota di alimenti non provenienti da colture condotte sul territorio nazionale e degli altri fattori produttivi impiegati nei processi zootecnici (carburanti, elettricità, acqua, ecc.), l’EF avrebbe certamente assunto un valore più consistente, contribuendo ad aggravare il bilancio ecologico del sistema agricolo italiano. Tuttavia, la valutazione quantitativa di questi elementi, che permetterebbe un’analisi più precisa della situazione, va oltre gli obiettivi di questo studio.
Focalizzando l’attenzione sui dati regionali, emerge in modo evidente la situazione della Lombardia, unica regione in cui l’impatto del settore zootecnico supera abbondantemente la biocapacità dell’intero settore agricolo (140%) e incide per quasi il 75% su quella complessivamente offerta dalla regione. Tale impatto, fra l’altro, risulta oltre un quarto di quello nazionale e contribuisce per oltre il 10% nel determinare l’insostenibilità complessiva dell’agricoltura italiana.
Fra le altre regioni, oltre a Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna, in cui la zootecnia, in particolare per il comparto bovino, evidenzia una significativa incidenza sulla BC agricola (40-60%) e regionale (30-40%), sono da segnalare alcuni casi interessanti. In Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta la zootecnia assume un peso rilevante in termini di biocapacità del settore agricolo ma assai più limitato su quella regionale nel suo complesso; ciò è dovuto alla presenza di ampie aree forestali la cui bio-produttività compensa gran parte dell’impatto generato dagli allevamenti. La Campania e la Sardegna, entrambe con un peso sulla BC agricola di circa il 50%, sono le uniche regioni del centro- sud in cui il settore zootecnico presenta un considerevole impatto ambientale; questa situazione, come evidenzia la figura 1, è determinata dalla presenza di una zootecnia fortemente specializzata, rispettivamente nei bufalini e negli ovini.
Conclusioni
L’offerta di biocapacità di un territorio dovrebbe riuscire a compensare il consumo di risorse naturali da parte di tutte le attività umane, tra cui anche coltivazioni e allevamenti; solo in questo modo, secondo l’approccio dell’impronta ecologica, un territorio può definirsi sostenibile.
Attualmente, l’intero pianeta si trova in condizioni di insostenibilità e anche l’Italia presenta un bilancio ecologico fortemente negativo, con un EF nazionale pari a quasi cinque volte la relativa BC [2]. Partendo da questa evidenza, è necessario chiedersi quale sia il ruolo dell’agricoltura, e nello specifico degli allevamenti, nel contribuire a determinare questa situazione di pesante sovra-sfruttamento delle risorse naturali.
Questo studio ha tentato di rispondere a tale domanda, valutando l’impatto della zootecnia nelle diverse regioni italiane e confrontandolo con la relativa offerta di biocapacità. I risultati, integrati con quando emerso in studi precedenti, evidenziano una complessiva insostenibilità del sistema agricolo italiano e un ruolo decisivo della zootecnia, in particolare in alcune regioni, nel determinare un’eccessiva pressione sui servizi ecosistemici che le aree agricole mettono a disposizione della collettività.
Con tutti i limiti derivanti dalla capacità di descrivere la complessità del fenomeno attraverso gli indicatori scelti e dalle approssimazioni cui si è fatto ricorso in alcuni passaggi dell’analisi, le tendenze evidenziate appaiono abbastanza chiare, confermando come, soprattutto in alcune regioni del nostro Paese, sia necessaria una maggiore attenzione, sia da parte degli attori economici che dei decisori politici, alle implicazioni ambientali delle attività zootecniche.
Riferimenti bibliografici
- Passeri N., Blasi E., Franco S. (2012). Le performance ambientali dei processi di produzione agricola. Cosa la Carbon Footprint dei prodotti agroalimentari non è in grado di I Convegno AIEAA, Trento, 4-5 Giugno 2012. (http://ageconsearch.umn.edu/handle/124124)
- Wackernagel M., Rees W.E. (1996). Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth. New Society Publishers, Gabriola Island,
- Coderoni S., Bonati G. (2013). Impronta Carbonica Aziende Agricole Italiane, Istituto Nazionale di Economia Agraria, Roma
- Banca Dati Nazionale dell’Anagrafe Zootecnica (https://vetinfo.it/j6_statistiche/#/)
- Mancini S., Galli A., Niccolucci V., Lin D., Bastianoni S., Wackernagel M., Marchettini (2016). Ecological Footprint: Refining the carbon Footprint calculation, Ecological Indicators, vol. 61, pp. 390-403.
- Global Footprint Network, Open Data Platform (https://footprintnetwork.org/)
- Passeri N., Blasi E., Franco S., Martella A., Pancino B., Cicatiello C., (2016). The environmental sustainability of national cropping systems: from assessment to policy impact evaluation, Land Use Policy, vol. 57, pp. 305-312.
Silvio Franco, Professore associato in Economia Agraria, è docente di Marketing e di Mercati Agroalimentari presso l’Università della Tuscia”. E-mail: franco@unitus.it