L’Allelopatia: come le piante influenzano la crescita di altre piante
di Guido Agostinucci
Già nel IV secolo a.C. i Greci compresero che alcune piante possedevano un effetto negativo sulla crescita di altre specie vegetali. Il botanico Teofrasto (ca. 371 – ca. 287 A.C) nelle sue opere De causis plantarum ed Historia plantarum descrisse i risultati dei primi studi sull’allelopatia e la fitotossicità. Nel susseguirsi dei secoli, vari scienziati intrapresero studi nel settore fino ad arrivare a Rice che nel 1984, definì l’allelopatia come l’insieme degli effetti, benefici o dannosi, sia diretti che indiretti di una pianta su un’altra, attraverso la produzione e l’immissione nell’ambiente di composti chimici. Tale definizione fu di vitale importanza per distinguere ciò che è la competizione tra piante dall’allelopatia.
Nella competizione, gli effetti sulla crescita delle piante derivano dalla sottrazione, e quindi riduzione reciproca, di determinate risorse necessarie allo sviluppo della pianta. Contrariamente, l’allelopatia implica l’immisione nell’ambiente di sostanze chimiche (dette anche allelopatiche o allelochimiche) non nutrizionali, prodotte dal metabolismo secondario di un organismo e che agiscono sul funzionamento, crescita, salute e popolazione biologica di altre specie.
In genere, gli effetti allelopatici provocano una riduzione della germinazione, uno sviluppo stentato, una riduzione dell’accrescimento delle plantule e dell’apparato radicale, una minore capacità di assorbimento degli elementi nutritivi ed un rallentamento dell’attività enzimatica e fotosintetica (Kobayashi, 2004). Essendo metaboliti secondari, le sostanze allelopatiche sono prodotti collaterali del metabolismo primario e si possono classificare in sei categorie principali:
- Alcaloidi
- Acetogenine
- Fenilpropanoidi
- Terpenoidi
- Steroidi
- Flavonoidi
Diverse parti delle piante, come ad esempio fiori, frutti, foglie, steli, corteccia, radici, percolati e composti derivati sono in grado di possedere attività allelopatiche che variano durante la stagione di crescita della pianta stessa. Tali sostanze allelochimiche possono persistere nel terreno influenzando la crescita sia delle piante già presenti nelle vicinanze, sia di quelle che verranno piantate successivamente. Nonostante le sostanze allelochimiche siano in genere più degradabili degli erbicidi tradizionali, possono comunque avere effetti indesiderati su piante non bersaglio ed è quindi importante comprendere il loro effetto nel sistema ecologico di appartenenza e nei diversi agroecosistemi.
L’incorporazione dei residui colturali nel terreno è una pratica molto diffusa in numerosi sistemi agricoli ed il suo scopo include il miglioramento delle proprietà del suolo, l’incremento della biodiversità del terreno, l’apporto di ulteriore sostanza organica, la riduzione di fenomini erosivi ed un miglioramento della gestione idrica. Allo stesso tempo, tale pratica può risultare in una minore resa della coltura a causa del rilascio di sostanze allelopatiche nel terreno, in special modo componenti fenolici, durante la decomposizione dei residui colturali (Shiraishi et al. 2002). Molteplici studi tra cui quelli di Kitou e Yoshida (1993 e 1998), hanno dimostrato che la maggior fitotossicità si ha durante i primi stadi di decomposizione dei residui vegetali. Allo stesso tempo, l’attività fitotossica delle sostanze rilasciate dai residui colturali è influenzata da fattori ambientali che includono le proprietà fisico-chimiche del terreno, l’attività microbiologica ed il livello di nutrienti (Harper e Lynch, 1982; Sene et al., 2000; Laterra e Bazzalo, 1999). E’ quindi fondamentale comprendere più nel dettaglio le fonti di provenienza, gli effetti, le interazioni, i benefici ed i rischi che tali sostanze comportano sia sulla crescita delle colture, sia su quella delle piante infestanti.
La produzione delle sostanze allelochimiche può avvenire sia durante il periodo di crescita della pianta, sia durante la decomposizione dei residui vegetali, tanto epigei come ipogei. Il rilascio di tali sostanze ha luogo attraverso i seguenti processi (vedere Figura 1):
- Volatilizzazione: rilascio di sostanze allelochimiche da parte delle foglie per via gassosa;
- Lisciviazione: rilascio di sostanze allelochimiche da parte delle foglie attraverso la lisciviazione dalla lettiera oppure tramite la rugiada, la pioggia o la nebbia;
- Essudazione: produzione di sostanze allelochimiche da parte dell’apparato radicale;
- Decomposizione: Rilascio di composti allelochimici da residui aerei o radicali.
Figura 1. Meccanismo di rilascio di sostanze allelopatiche (immagine di Guido Agostinucci)
Esistono due tipi di tossicità dei composti allelochimici che si distinguono sulla base dell’effetto provocato dalla pianta donatrice (pianta che produce i composti) alla pianta bersaglio:
– L’autotossicità dei composti allelochimici si ha quando questi ultimi colpiscono piante bersaglio appartenenti alla stessa specie di quella donatrice;
– Con l‘eterotossicità, i composti allelochimici colpiscono specie diverse da quelle della pianta donatrice.
I composti allelochimici possono avere effetto sia sulla germinazione delle piante, rallentandola, riducendola o impedendola, sia sulla loro crescita, riducendo la capacità germinativa o lo svilippo dell’apparato radicale. La durata nel tempo dell’effetto di tali composti varia in funzione delle caratteristiche pedoclimatiche, del tipo di composto rilasciato e dal sito d’emissione. Allo stesso modo, l’intensità dell’effetto dipende dallo stadio di sviluppo della pianta e dalle condizioni di stress da essa subite.
L’allelopatia gioca un ruolo molto importante per la difesa delle piante, essa infatti agisce come meccanismo di difesa contro predatori (insetti e vertebrati), batteri, funghi e virus oltre che per il controllo della crescita di altre piante in competizione per risorse quali luce, acqua, suolo e sostanze nutritive. Per tali ragioni, negli ultimi decenni la ricerca in questo settore è incrementata notevolmente in particolar modo con l’obiettivo di essere applicata per la produzione di nuovi bioerbicidi e biopesticidi, negli avvicendamenti colturali, per la compatibilità delle consociazioni, per il controllo degli agenti patogeni e per quello delle piante infestanti. Quest’ultima applicazione, nello specifico, è tra quelle di maggior interesse nel campo della ricerca e la capacità di produrre composti allelopatici è stata già dimostrata per un gran numero di specie, tra queste anche specie comunemente coltivate. Vyvyan, già nel 2002, aveva riportato oltre 300 sostanze con potenziali effetti allelopatici.
La seguente tabella mostra alcune specie, coltivate e non, che hanno dimostrato possedere attività fitotossica:
Tabella 1. Alcune specie vegetali ad attivitá allelopatica (adattato da Ferguson et al, 2003)
Il bacino mediterraneo è un’ importante fonte di potenziali erbicidi naturali consoni ad essere utilizzati in sistemi agricoli sostenibili. Al riguardo, un numero crescente di studi, tra cui quello di Araniti et al (2012) hanno constatato l’attività allelochimica di varie specie tipiche dell’ambiente mediterraneo. Tra queste risalta la fitotossicità degli estratti acquosi della mentuccia comune (Clinopodium nepeta), l’iperico ircino (Hypericum hircinum), l’assenzio arbustivo (Artemisia arborescens) e l’euforbia rigida (Euphorbia rigida) le quali hanno dimostrato possedere effetti fitotossici sulla germinabilità ed allungamento della radici della lattuga (Lactuca sativa), del farinello comune (Chenopodium album), del giavone (Echinochloa crus-galli) e della senape bianca (Sinapis alba).
Figura 2. La nappola (1) (Xanthium strumarium L.), la mentuccia comune (2) (Clinopodium nepeta L. Kuntze), la malva selvatica (3) (Malva sylvestris L.)e la cicoria (4) (Cichorium intybus L.), specie molto comuni in ambienti mediterranei, hanno dimostrato possedere attività fitotossiche (foto di Guido Agostinucci).
Figura 3. Anche la lantana (Lantana camara L.), specie esotica ma ormai molto comune in Italia, è in grado di produrre composti allelopatici (foto di Guido Agostinucci)
Conclusioni
L’interesse crescente a livello internazionale nei riguardi dell’applicazione di composti allelopatici per il controllo naturale delle erbe infestanti ha grandi potenziali per la riduzione dell’utilizzo di diserbanti chimici tuttora ampiamente utilizzati in agricoltura e che in molti casi rappresentano rischi per la salute dei consumatori, per gli operatori agricoli e per l’ambiente. Allo stesso tempo ulteriori ricerche su questa tematica sono necessarie per meglio comprendere i processi allelopatici, essendo essi alquanto complessi e influenzati da fattori non solo relativi alla pianta donatrice e quella bersaglio, ma anche dalle caratteristiche del suolo, dalla disponibilità idrica e di nutrienti, dalla consociazione con altre colture e dalle condizioni climatiche (Albuquerque et al. 2011).
La ricerca nel campo dell’allelopatia richiede uno sforzo multidisciplinare di agronomi, botanici, chimici organici e biologi molecolari al fine di sfruttare ciò che la natura ci dona per la produzione di erbicidi. Nonostante negli ultimi anni si sia assistito ad un crescete interesse e ricerca sull’utilizzo di colture allelopatiche nell’avvicendamento colturale, nelle colture di copertura, nel green manuring ed intercropping, l’allelopatia va riconosciuta come un processo dinamico che coinvolge molteplici fattori.
Un miglioramento del potenziale allelopatico delle specie colturali avrebbe un impatto significativo sia sui sistemi agricoli intensivi che su quelli a basso input. Al momento, le cultivar in commercio non posseggono specifiche proprietà allelopatiche, tuttavia esiste la possibilità di produrre nuove cultivar allelopatiche attraverso la selezione varietale di specie in grado di regolare la capacità produttiva di sostanze allelochimiche. Ovviamente, affinché tali cultivar possano essere utilizzate, problemi quali l’autotossicità, lo squilibrio metabolico, l’effetto residuo e lo sviluppo di popolazioni tolleranti andrebbero studiati a fondo e risolti.
L’allelopatia da sola non è in grado di sostituire totalmente tutte le altre pratiche per il controllo delle infestanti. Tuttavia rappresenta un’alternativa attraente nel soddisfare le richieste dei consumatori e degli ambientalisti. La riduzione dell’uso di erbicidi infatti comporterebbe benefici economici sia per i produttori che per l’ambiente.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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- Vyvyan, J.R. (2002). Allelochemicals as leads to new herbicides and agrochemicals. Tetrahedron 58: 1631-1646 pp.
Guido Agostinucci si è laureato in Scienze Agrarie presso l’Università di Melbourne (Australia), specializzandosi in Agroecologia presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo). Oltre a gestire un’azienda agricola in provincia di Viterbo, l’autore ha lavorato come ricercatore presso il Dipartimento di Ecologia e Sviluppo Economico Sostenibile (DECOS) dell’Università degli Studi della Tuscia e come consulente per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO).