di Mattia Turchi
La grappa, prodotto italiano d’eccellenza, è da sempre oggetto di attenzioni sbagliate. E’ molto frequente, infatti, sentir parlare di grappa in termini di grado alcolico, richiamando un concetto erroneo che bolla le grappe come concentrati di alcol e nulla più. Ogni grappa, per legge, nasce da distillati di vinaccia prodotta in Italia ed è importante sottolineare come la vinaccia sia un elemento indispensabile per la grappa: basti pensare alla quantità di sostanze aromatiche che il solo processo di fermentazione del mosto rilascia su di esse o alla grande varietà di vitigni del territorio italiano, che possono identificare ogni singola regione per le differenze di clima e le lavorazioni sul mosto e, quindi, sulla vinaccia stessa.
Per iniziare a capire il vasto mondo della grappa è indispensabile guardare alle sue origini. Prima di nascere, la grappa è vinaccia che viene distillata, ma prima di essere vinaccia è mosto che fermenta e, in ultimo, prima di essere mosto, è uva che cresce esposta al sole Ed è proprio da qui che deve iniziare il viaggio.
Molti sono a conoscenza che il procedimento chiave della produzione di vino, a partire dal mosto d’uva, è la fermentazione e che, quest’ultima è svolta dai lieviti, come ci insegna il celebre lievito Saccharomyces cerevisiae. Ma quanti sanno come fanno i lieviti a giungere dall’uva nel mosto per la fermentazione?
Vigneto
Grappoli d’uva in corso di maturazione
Tutto inizia dall’acino d’uva
Mentre il chicco matura attaccato al raspo, si ha la formazione di una “bomba” microbiologica: la buccia dell’acino, infatti, funge da sottile e indispensabile barriera fra i numerosi zuccheri disciolti nella polpa e la calca paziente di microorganismi distribuiti all’esterno. Come possiamo capire da questa breve introduzione, per quanto sia importante, il Saccharomyces Cerevisiae non è certamente il solo a contribuire alla fermentazione e, facendo un paragone scolastico, possiamo immaginarlo come il primo della classe, colui che prende il sopravvento per la propria resa. Sono moltissimi, infatti, i microorganismi provenienti dal terreno e, in generale dall’ambiente in cui cresce la vite, che prendono il nome di microflora dell’uva. Questa microflora è in grande parte responsabile del processo di fermentazione, chi più chi meno, e come anticipato precedentemente, essendo autoctona, ossia specifica e naturalmente selezionata nella zona in cui ci troviamo, caratterizza fortemente il prodotto finale in tutte le sue sfumature.
Saccharomyces cerevisiae
Fra i microorganismi che possono comporre la microflora dell’uva troviamo, ad esempio, i lieviti, fra cui il Saccharomyces Cerevisiae, alcuni lieviti apiculati, dalla caratteristica forma a limone, ma anche Candida, Cryptococcus, Pichia e Kluyveromyces; batteri lattici, fra cui specie di Lactobacillus e Oenococcus Oeni; batteri acetici, fra cui il famoso Acetobacter Aceti, responsabile della fermentazione acetica; muffe, fra cui Botritis Cinerea, specie di Penicillium, Aspergillus, Mucor, Rhizopus e molte altre. Questa microflora rispecchia la realtà solo nel caso in cui l’acino sia integro. Nel momento in cui dovesse danneggiarsi, avremmo una riduzione dei lieviti e un conseguente aumento di muffe e batteri acetici.
Aspergillus
Una volta raccolta, l’uva deve essere trasportata in cantina, dove avrà luogo la fermentazione. Questa è una della parti più rischiose dell’intero processo di vinificazione e la preoccupazione principale durante la vendemmia è proprio quella di impedire che la fermentazione possa avere inizio prima dell’arrivo in cantina. Come può succedere questo? Basta immaginare il chicco d’uva come una stanza con un ricco buffet all’interno e la moltitudine di microorganismi che compongono la microflora disposta sulla buccia come una folla di persone in attesa che le porte si aprano per dare inizio al banchetto. Se le bucce dei vari acini dovessero danneggiarsi e lacerarsi, i microrganismi penetrerebbero all’interno per dare il via ai loro processi metabolici, innescando, così, una fermentazione che non sarebbe necessariamente quella richiesta per avere un buon prodotto.
Quando il mosto è pronto, viene stoccato in grossi contenitori nei quali si svolgerà la fermentazione in condizioni controllate. Fortunatamente, la natura ci viene in soccorso. Non tutti i microorganismi, infatti, iniziano subito la fermentazione, ma ognuno di loro risponde alle condizioni “ambientali” in cui si trova. Ad esempio, il pH del mosto all’inizio della fermentazione, trovandosi a un valore di circa 3 – 3,5 unità, fornisce un meccanismo di prevenzione per alcune fermentazioni indesiderate, mentre permette il proseguire di quelle necessarie. I lieviti che vivono e proliferano perfettamente, cioè si trovano nel loro optimum con valori di pH un po’ più alti, fra 4 e 4,5, non risentono in maniera particolarmente negativa il pH basso, ma continuano a lavorare, anche se a ritmo meno intenso, nonostante condizioni non ottimali. I batteri acetici invece, subiscono una forte battuta d’arresto, dal momento che il loro metabolismo tollera quei valori di pH, ma la loro crescita diventa zero. Come i lieviti, anche le muffe non sono particolarmente influenzate da questi valori di pH, ma si può capire bene che questa regolazione “autonoma” è di grande aiuto al processo di vinificazione.
E’ importante notare, come anticipato, che non tutte le fermentazioni procedono alla stessa velocità e, ancor più importante, che non tutti i microorganismi iniziano i loro processi fermentativi all’unisono. In particolare, all’inizio del processo, i primi lieviti a partire sono i cosiddetti apiculati, come ad esempio la Kloekera Apiculata e la Kloekera Apis, che non hanno fra le caratteristiche principali la produzione di alcol, ma quella di acido acetico. Non essendo, poi, i lieviti apiculati in grado di sostenere tenori alcolici superiori al 3%, la loro attività e funzione si esaurisce nelle prime fasi della fermentazione. Da questo momento, prendono il sopravvento i lieviti detti ellittici, come ad esempio il Saccharomyces Cerevisie e il Saccharomyces ellipsoideus, che, oltre a essere presenti in quantità maggiori, sono resistenti a concentrazioni più alte di alcol e, quindi, procedono a vele spiegate.
Il grande buffet che si trova all’interno dell’acino e di cui abbiamo parlato andrà a costituire il mosto per la fermentazione, ma dobbiamo entrare nel merito. Il mosto d’uva, infatti, è generalmente costituito da una grande quantità di sostanze, ognuna delle quali dà un contributo specifico e personale a quello che, poi, sarà il vino e, successivamente, il distillato italiano di bandiera, la grappa.
Fra le sostanze presenti nel mosto, abbiamo il 70-85% di acqua; zuccheri, fra cui glucosio e fruttosio; vari acidi, come ad esempio l’acido tartarico, responsabile del gusto “duro” nel vino, l’acido malico, responsabile del gusto “aspro” e l’acido citrico, che dà il gusto “fresco”; polifenoli (antociani, flavoni e tannini); composti azotati; pectine; terpeni e vari minerali. Ogni microorganismo, come ogni individuo, ha gusti e predilezioni specifiche per ognuna di queste sostanze ed ecco perché si può ottenere una gamma così vasta di sensazioni olfattive.
A questo proposito, si rende necessaria un’ulteriore precisazione. Non tutti i processi metabolici, infatti, sono fondamentali o, più precisamente, non tutti i prodotti delle vie metaboliche hanno lo stesso scopo. Proprio per questo motivo, i prodotti del metabolismo, chiamati metaboliti, si dividono in due categorie principali: i metaboliti primari, indispensabili e prodotti per far fronte al metabolismo essenziale, cioè quello energetico, e i metaboliti secondari, che vanno ad agire su aspetti secondari della vita dell’organismo che li produce, ad esempio, per protezione, difesa, richiamo oppure per mettersi a proprio agio e creare un ambiente favorevole. In particolare, ad esempio, fra i metaboliti secondari troviamo sostanze quali alcaloidi, terpeni, acidi organici alifatici o aromatici, fenoli, steroidi, olii volatili e saponine. L’unione e l’incontro di più sostanze, prodotte dagli stessi microorganismi che contemporaneamente producono anche l’alcol, che poi è il veicolo principale, o solvente per tutte queste sostanze importantissime, dà vita alla complessità di profumi e sensazioni olfattive.
Da quanto detto finora, risulta chiaro che parte delle sostanze trattenute nelle vinacce fermentate al termine della produzione vinaria passano, poi, durante la distillazione, mediante l’alcol che funge da solvente nel cuore del prodotto, andando a caratterizzarlo in maniera specifica. La distillazione, a sua volta, interagisce con tutte le sostanze disciolte nella soluzione idroalcolica, separandole in varie fasi. Per avere un’idea più chiara di cosa succede alle sostanze e agli aromi, può essere molto utile visualizzare un imbuto: come un imbuto, infatti, la distillazione seleziona solo alcune delle fragranze, a volte positive e, purtroppo, a volte negative, variandole in concentrazione e purezza.
Ecco allora che una grappa non è semplicemente una bevanda alcolica, ma è espressione e voce del territorio che le ha dato la vita e il nutrimento e probabilmente è grazie a questo che la grappa si trova a pieno titolo fra le eccellenze italiane, come non da meno lo è il vino, fratelli separati alla nascita.
Mattia Turchi è nato a Bagno a Ripoli (Firenze) nel 1988. Laureato in Biotecnologie agro-industriali presso la facoltà di Agraria dell’Università di Pisa nel 2012, lavora da diversi anni nell’ambito delle fermentazioni, in particolare, di quella vinaria. Il suo grande interesse per la filiera alimentare fermentativa lo ha portato a intraprendere la via dell’homebrewing e quella della degustazione di distillati, diventando socio Anag, Assaggiatori grappa e acquaviti nel 2014.
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