di Lucio Alciati
Semi di Barbarià (foto Emiliano Sciandra)
Il Barbarià, appellativo che deriva probabilmente da imbarbarito – imbastardito, era un’antica tecnica che prevedeva la semina autunnale di una miscela composta da semi di grano (60%) e segale (40%). La sua coltivazione, nel 1800, era così importante da essere citata nei mercuriali locali, come “barbariato”, ed era soggetta a tassazione e controllo annonario alla stregua degli altri cereali. Non è quindi, come credono in molti, la semplice mistura delle due farine attuata all’atto dell’impasto nel panificio o laboratorio di pasticceria dove i gusti vengono amalgamati artificialmente, ma in campo dove gli aromi e le particolari caratteristiche scaturiscono anche dalla naturale impollinazione incrociata delle due specie.
Si trattava, allora, di un metodo che consentiva alla popolazione montana e pedemontana di ottenere una farina da pane più digeribile di quella che veniva prodotta con la sola segale. Infatti, specialmente negli anni del 18.mo e 19.mo secolo, a causa delle temperature rigide che caratterizzavano quell’epoca (piccola glaciazione), la coltivazione del grano risultava difficile e non tutte le annate erano propizie. L’unico cereale resistente e che dava raccolti stabili a quelle condizioni era la segale: ma produceva un pane nero e abbastanza indigesto.
Tuttavia la necessità aguzza l’ingegno e i nostri bravi antenati cominciarono a seminare un misto di grano e segale cosicché, se l’annata correva favorevole, alla fine ottenevano una farina particolare, buona e sostanziosa, se, invece, l’annata risultava difficoltosa e comprometteva lo sviluppo del grano (come detto più sensibile alle avversità climatiche) raccoglievano comunque la segale, utile per la loro sopravvivenza.
Si hanno notizie scritte di coltivazioni di barbariato già nel 1480 quando “il consiglio comunale di Cuneo delibera di affittare le terre dell’Ente contro la prestazione del canone della metà per il frumento e della terza parte della segale e del barbariato. (Vigne e Vini nel Piemonte rinascimentale – Rinaldo Comba – 1991)
Ma la storia del Barbariato, citato dialettalmente come barbarià nell’antico dizionario Piemontese – italiano scritto da Giovanni Pasquali ed edito nel 1869, ha radici antichissime che sfiorano la leggenda. Infatti si narra che la tecnica venne insegnata da un troubadour provenzale ad una giovane montanara piemontese, nel mitico medioevo. Il troubadour, errante musico e cantastorie, passando in una delle nostre alte borgate per giungere alla corte del signore del luogo dove avrebbe cantato leggendarie imprese di prodi cavalieri e di cruente battaglie, vide il volto bellissimo di una giovane donna. Dai lineamenti forti, freschi e sensuali come le nostre maestose Alpi quella donna rubò il cuore del troubadour. Lui passò con lei giorni indimenticabili ma non era la sua vita. Lui era pazzo di libertà. Lui si sentiva messaggero di storie eroiche. Se ne andò all’alba dorata di un colorato e mite giorno di tardo autunno. Ma prima di andarsene fece un dono alla sua giovane amata. Gli donò un poco di semi grano che aveva portato con sé dalla calda Provenza. Quei chicchi che dovevano servire per il lungo il viaggio. Che doveva macinare per far farina e mangiare in croccanti pani azimi cotti sulla pietra ardente del focolare serale. Quei semi che aveva avanzato. Gli insegnò un segreto saputo nel suo girovagare in quelle terre: seminare quel grano misto alla loro segale per avere un pane dolce e buono come il loro amore, senza temere carestie per l’eventuale forte e sterile gelo invernale che poteva succedere in quei ardui monti. Infatti in quei tempi il popolo delle Alpi seminava la segale, unico cereale che sopportava i capricci del clima montano ma era poco nutriente e facilmente inquinato dall’allucinogeno fungo che dava pazzia. Tuttavia se l’inverno era clemente che peccato non aver seminato del vitale frumento. Cosicché quella sapienza poteva dare grazia. Se l’inverno era buono si otteneva delicata farina, se l’inverno era maligno si aveva comunque nera farina di segale per sopravvivere.
A luglio dell’anno dopo, il troubadour passò di nuovo presso quella borgata delle nostre alte terre e, con suo immenso stupore e gioia, vide che dall’unione con la sua amata era nato un bambino dai capelli corvini come le notti calde della Provenza e dagli occhi chiari come l’azzurro della neve ghiacciata delle vette. La gente del luogo, nel frattempo, lo aveva chiamato barbarià da bastardo perché non aveva un padre. Ma un tempo non era un insulto. Allora era comune anche tra i potenti. Quel giorno, quel padre, si fermò per raccogliere quello che avevano seminato nove mesi prima, nell’amore e nel campo. Dall’unione del troubadour (grano) con la ragazza (segale) nacque una speranza di vita migliore.
Da allora il barbariato venne coltivato per molti secoli, fino a pochi decenni fa, aiutando le popolazioni alpine nel sopravvivere anche nei tempi più bui. Ora è riproposto da alcune aziende della Valle Grana, specialmente in rotazione all’aglio. Leggenda o realtà non si sa. Quello che è certo che lo stesso tipo di coltivazione veniva effettuata in Francia, in Provenza, già in antichità. Lì lo chiamavano Mèteil.
Tecnica colturale
La semina è autunnale. La miscela prevede il 50 % di frumento e il 50 % di segale. Se nella miscela il frumento superava in percentuale la segale veniva chiamato barbariato grasso. Viceversa se la segale superava in percentuale il frumento veniva chiamato barbariato magro. Attualmente si semina il barbariato grasso (60 % di frumento – 40 % di segale).
Il frumento tradizionale è il Berton o Bertone, chiamato nel medioevo Calbigia perché privo di ariste se non due piccoli accenni sulla sommità della spiga. Probabilmente è il frumento che ha dato il nome alla Valle Grana -Valle del Grano.
La segale non ha subìto, nel corso degli anni, marcate modiche. Infatti lo studio genetico si rivolse ed è rivolto in maniera preponderante sui frumenti.
La raccolta o mietitrebbiatura avviene a Luglio.
Precisazioni
Alcuni confondono il barbariato con il triticale ma le differenze sono fondamentali. Il barbariato è la semplice semina e coltura mista di grano e segale da cui deriva una granella poco fertile e riproduttiva.
Il triticale invece è sì il risultato della semina mista tra frumento e segale ma il seme derivato è fertile grazie all’intervento esterno dell’uomo che stimola la fecondazione attraverso un organismo esterno. Praticamente il triticale può definirsi il primo ibrido artificiale della storia perché creato nel 1800 (tra la segale e il grano duro o altre varietà del genere Triticum). Sono due realtà totalmente diverse.
Curiosità
Lungo la strada che conduce sui colli di Moiola c’è una frazione che si chiama Barbaria. Da una mia piccola indagine ho saputo che lì, su terreni scoscesi ancora visibili, si coltivava il barbarià da tempo immemore. Sarà stata quella l’antica borgata del troubadour?
Utilizzo
La farina di barbariato è indicatissima, per la fragranza e profumo che ha, nella preparazione di biscotti, torte e dolci in genere. Ottima anche nella panificazione dietetica. Ancor meglio se integrale. Ha comunque poca lievitazione.
Coltivazione attuale e commercializzazione
Attualmente il barbariato viene coltivato in rotazione all’aglio locale e ritirato da un socio del consorzio (www.fattoriadellaglio.it – www.barbariato.it) che lo commercializza sotto forma di farina e prodotti da forno – paste alimentari tramite aziende locali trasformatrici.
Lucio Alciati, Perito agrario, è Presidente dell’Associazione per la promozione e la Tutela dell’antica Patata Piatlina e della Patata Ciarda della Valle Grana. Già Presidente del Consorzio dell’aglio di Caraglio (2008-2012). Promuove la rivalorizzazione dell’agricoltura tradizionale e le antiche coltivazioni della sua terra (la Valle Grana di Cuneo) attraverso la ricerca storica e la coltura diretta. E-mail: lucio.alciati@libero.it
|