di Giovanni Canu
Con il sopraggiungere della primavera si hanno, nella filiera del latte bufalino, una serie di importanti modifiche nelle esigenze tecnico-commerciali del comparto. Con l’arrivo del mese di marzo, infatti, molti caseifici applicano una maggiorazione del prezzo del latte pagato agli allevatori per poter meglio sostenere la maggiore richiesta di latte che il periodo impone dando, di conseguenza, un concreto incentivo agli allevatori per far sì che la percentuale maggiore di produzione lattea coincida con i mesi che vanno da febbraio a settembre.
Ovviamente, per far ciò, gli allevatori devono mettere in pratica politiche di gestione aziendale che, giocoforza, penalizzano il reddito durante il periodo invernale.
La prima pratica da attuare affinché i parti (e di conseguenza il picco produttivo che ne deriva) siano concentrati nel periodo sopraindicato, consiste nella destagionalizzazione della mandria.
Laddove la fecondazione delle bufale avvenga con l’inserimento dei tori in mandria (ma anche con la programmazione di eventuali piani di fecondazione artificiale) si procede con l’isolamento dei tori a partire dai primi giorni del mese di ottobre, limitando così drasticamente i concepimenti nel periodo tra ottobre stesso e febbraio, mese in cui i tori vengono nuovamente inseriti in mandria.
Ovviamente, vista la gravidanza di circa dieci mesi della bufala, gli accoppiamenti di fine settembre daranno lattazioni che iniziano nel periodo di tempo compreso tra fine luglio ed inizio agosto dell’anno successivo, mentre i primi nuovi accoppiamenti di fine febbraio ed inizio marzo daranno lattazioni dal principio di gennaio in poi, con picchi produttivi che si spalmeranno nei mesi di maggiore richiesta del mercato.
Questa improduttività indotta ha per l’allevatore costi enormi, visto che spesso vede la quantità di latte prodotta in autunno a livelli davvero bassi. Ci sono, ad esempio, aziende fortemente destagionalizzate che producono anche 22-25 quintali di latte nel periodo estivo per scendere fino a 6-7 quintali nel periodo autunnale. In aziende di circa 400-500 capi, le entrate economiche derivanti da soli 600-700 kg di latte spesso coprono, a malapena, le spese primarie.
Bufala al parto (Az. Ferro loc. Spinazzo – Salerno)
I costi derivanti dall’alimentazione in primavera-estate sono, poi, sempre maggiori vista la necessità di dover applicare delle forzature energetiche e di integratori che stimolino quanto più possibile la sfera riproduttiva a farsi trovare pronta in un periodo dell’anno in cui il fotoperiodo lungo mal si sposa con la naturale tendenza di questa specie ad accoppiarsi con facilità nelle giornate autunnali caratterizzate da poca luce.
L’avvento della stagione calda ed il cambiamento della disponibilità di determinati alimenti (erbe primaverili, laddove si utilizzi foraggio fresco non affienabile o utilizzabile diversamente) determina, unitamente alla presenza in stalla di molti animali freschi di parto con chimica del latte ancora non stabile per via della montata lattea, un’alterazione delle caratteristiche di caseificazione del latte stesso proprio nel momento in cui massima resa e facilità di lavorazione sarebbero aspetti assai graditi al caseificio.
Nella bufala, quindi, si hanno durante l’anno, in seguito a notevoli mutamenti ambientali (stress competitivi e metereologici) ed alimentari (variazioni assetto ormonale tra asciutta e lattazione, cambio dell’assetto foraggero, cambiamento repentino di molti alimenti) modificazioni significative dell’assetto metabolico che possono pregiudicare notevolmente le performances produttive e dare sempre più spesso origine a vere e proprie patologie. Patologie che sempre più spesso hanno andamento sub-clinico (ossia non presentano una sintomatologia grave e manifesta in modo chiaro) ma che possono alterare notevolmente la composizione del prodotto finale di questo tipo di allevamento che è appunto il latte!
Bufale al pasto
Alterazioni che riguardano il tenore in grasso e proteina, l’incremento vertiginoso dell’acidità o un suo decremento con conseguenti allungamenti del tempo di cagliata della pasta o perdita della tipica elasticità; possiamo inoltre riscontrare aumento dei contenuti di urea nel latte stesso (con inibizione della sintesi di caseina) o aumento della carica batterica. Non per ultimo possiamo riscontrare latte “annacquato” per alterazione del punto di congelamento (vedi riferimento alle mastiti) o latte eccessivamente contaminato da batteri. Tutte quelle sopracitate sono situazioni che compromettono il processo di caseificazione in modo più o meno grave.
Parliamo di patologia
Analizziamo ora le patologie che maggiormente intervengono nelle modificazioni qualitative del latte di bufala.
Le indigestioni e le affezioni del settore gastrico anteriore sono le principali indiziate di queste variazioni peggiorative della qualità del latte.
Una delle più frequenti è di sicuro l’indigestione con acidosi. Questa si riscontra con grande frequenza per l’impiego largamente diffuso dell’insilato di mais, soprattutto se mal conservato, di concentrati e di molti cereali ricchi in carboidrati semplici, facilmente digeribili e di pronto utilizzo (mais, orzo, frumento, sfarinati o fioccati…).
Quando una dieta risulta bilanciata nei suoi costituenti fondamentali (fibra grezza, glucidi e proteine), si verifica nel rumine una formazione normale di acidi grassi volatili. Qualora amidi ed altri carboidrati risultino, entro certi limiti, in eccesso si verifica il mutamento dell’habitat ruminale che favorisce una intensissima moltiplicazione di batteri glucolitici con conseguente ed abnorme produzione di acido lattico, ed il pH ruminale decresce notevolmente (da 6,8 – 6,5 fino a 5,5 dove l’acidosi si limita al contenuto ruminale); in presenza di razioni fortemente sbilanciate, acidogene quindi, la formazione di acido lattico è talmente tumultuosa da sovrastare completamente la produzione degli acidi grassi volatili. L’ulteriore abbassamento del pH del contenuto ruminale (fino a 5,0 – 4,0) causa stasi della motilità dell’organo ed insorgenza di infiammazioni gastrointestinali.
Quando il problema non viene tempestivamente contrastato (meglio se prevenuto) la patologia può degenerare anche nel coma. A questo punto la morte del soggetto non è un evento raro. Per quanto riguarda i tenori chimici del latte, possiamo avere la caduta repentina del titolo di grasso che da circa 8,50 grammi ogni 100 grammi (dato medio di riferimento) può scendere intorno al 6,50-7,00. La pasta da filare appare vetrosa, fragile a volte e poi anelastica per perdita immediata di liquidi. Le bufale fortemente produttrici ed in regime alimentare forzato, possono manifestare tutti i sintomi descritti. Nella maggior parte dei casi, però, una bufala in odore di acidosi tende semplicemente a fare molto meno latte o a non raggiungere un picco di lattazione da campionessa. In ogni caso l’acidosi determina un dismicrobismo ruminale, con produzioni di acidi che possono, unitamente all’abbassamento del tenore di grasso nel latte ed alla minore sintesi di k-caseine, un peggioramento della caseificabilità del latte che pregiudica il risultato del prodotto finale, ossia la mozzarella. Nel caso di insorgenza dei suddetti disturbi risulta essere di grande aiuto l’utilizzo di glicole monopropilenico (additivato di vitamine del gruppo B e sorbitolo), il quale è un complemento alimentare energizzante.
Filatura manuale
In commercio vi sono molteplici prodotti liquidi che ne contengono una buona dose e, come accennato, se arricchiti di vitamine e zuccheri solubili sono in grado di stimolare diversi effetti metabolici. Un prodotto liquido “metabolico stimolante” dovrebbe avere tra i suoi componenti sostanze come vitamina pp (antichetonica ed antilipolitica), glicole propilenico (favorisce la sintesi epatica di glucosio), glucosio e sorbitolo (aumentano la glicemia nel breve periodo) nonché peptidi attivi (per migliorare l’appetito e sostenere comunque le produzioni) ed acido malico in grado di stimolare il batterio Selenomonas ruminantium ad utilizzare l’acido lattico in eccesso per i propri fini energetici di metabolismo.
Ulteriori aiuti in casi di acidosi grave (pH inferiore a 5,0) vengono dall’utilizzo di colture di lieviti, capaci di apportare microrganismi attivi sulle fibre e sulla cellulosa, in grado quindi di ristabilire un habitat ruminale più congeniale alla produzione di acido acetico che è, in definitiva, un precursore del grasso del latte.
Per quanto riguarda stati di acidosi meno gravi ma ugualmente dannosi ai fini della produzione casearia si può procedere con l’inserimento in razione di tamponi specifici che abbiano oltre al classico bicarbonato di sodio, anche del propionato di sodio, in grado di esplicare azione antinfiammatoria in caso di mastite.
Ricordiamo che una forte acidosi può portare a comparsa di mastiti che, alterando la permeabilità delle membrane della mammella, fa sì che le componenti acquose del sangue non vengano trattenute, alterando in modo significativo il punto di congelamento. Un buon tampone deve essere in grado di tamponare rumine, abomaso ed intestino (comunque in stati di acidosi anche grave) i quali utilizzati con costanza nell’ordine di 80-100 grammi/capo giorno sono in grado di stabilizzare fortemente eventuali disturbi digestivi sul lungo periodo.
Discorso diametralmente opposto si ha in caso di alcalosi ruminale. Soprattutto nei mesi di aprile, maggio e giugno con l’utilizzo in alcune aziende di insilati primaverili o erbe verdi molto concimate con concimi azotati o liquami si può incorrere in razioni troppo ricche in composti azotati. Questo avviene anche quando negli insilati mal conservati si ha liberazione di ammine in seguito a putrefazione. L’alcalosi ruminale si manifesta, nella bufala, dapprima con diarrea scura e fetida in cui l’odore di idrogeno solforato (ricordiamo che una frazione proteica ha lo zolfo come composto aggiuntivo) è molto marcato. Il pH ruminale sale oltre il 7,4 e si iniziano a vedere casi diffusi di anoressia ed iperemia mammaria e vaginale.
Il rigonfiamento di liquidi del comparto utero-vaginale può determinare, a causa di peso eccessivo e lassità legamentosa, prolasso del comparto in quegli animali che sono nel primo mese di lattazione.
Gli animali in alcalosi possono anche demineralizzarsi (a livello uterino la cosa diventa pericolosa per le ovaie) a causa della formazione di solfuri acidi in sede intestinale in seguito a fenomeni putrefattivi di materiale proteico indigerito. A livello visivo l’animale può presentare seborrea sul dorso a causa di sovraccarico epatico. Il latte ad un’analisi può presentare innalzamento del tenore di urea (oltre 40 mg/dl e 3,4 circa di gradi sh) e abbassamento del livello proteico (minore di 4,50 grammi ogni 100 grammi di latte).
L’abbassamento del tenore proteico del latte è dovuto ad una carenza di energia in rapporto all’eccessivo apporto proteico della razione; in pratica i batteri ruminali utilizzano le catene carboniose delle proteine per produrre energia. In caso di crollo dei gradi sh del latte si ha un allungamento del tempo di cagliata tale da rendere il prodotto ingestibile; infatti oltre un certo orario di attesa la pasta inizia, comunque, a dare problemi di putrefazione. Non sempre il problema è dovuto a razioni sbilanciate, anche se la voglia di produzioni record quando il latte è ben pagato può indurre in errore. Spesso, effettuando analisi chimico fisiche sull’unifeed di stalla si riscontrano errori di razionamento abbastanza evidenti.
Ad esempio identificando come valori ottimali, per una bufala in lattazione, parametri sul secco quali: proteina 15%, amido 20%, fibra 22%, ndf 42%, possiamo osservare come ci si discosti anche di molto senza che l’allevatore ne abbia reale consapevolezza.
Spesso si sente dire che “un paio di chili in più” di mais o di soia sono stati aggiunti per assecondare le esigenze produttive di una mandria fresca. Il problema diventa evidente quando, ad analisi, viene fuori che l’amido è in realtà salito a 23 o 24%, ma cosa più grave la fibra e l’ndf sono scesi a livelli pericolosi.
Se aggiungiamo che con la stagione calda o con il semplice venticello primaverile la quota fibrosa si asciuga rapidamente e si demiscela dall’unifeed ci rendiamo conto del perché’ la nostra mandria ha difficoltà a produrre un latte soddisfacente in termini qualitativi.
Quindi, ancora una volta, è l’ambiente inteso come mutate condizioni climatiche e il management inteso come mutate, appunto, esigenze produttive a fare la differenza ed a generare inconvenienti.
Tornando ai problemi del cambio di stagione possiamo affermare che il caldo eccessivo con alta umidità fa sì che gli animali bevano oltre un quintale di acqua e ciò che ne consegue è una diluizione eccessiva del succo ruminale che si traduce in scarsa efficienza con conseguente insorgenza di patologie digestive se non si interviene prontamente a stimolare il metabolismo e la ruminazione in modo mirato.
La ruminazione stessa è presieduta da impulsi che percorrono varie serie di nervi cranici che hanno origine dall’encefalo. Questi fasci sono raggruppati nella denominazione di nervo vago o pneumogastrico o nervo decimo delle dodici paia di nervi cranici.
L’alternanza di fasi di alta pressione con giorni grigi e conditi da vento caldo di scirocco fa sì che si abbia una cosiddetta ipotonia vagale (ipofunzionalita’ del sistema nervoso parasimpatico). Questa si traduce in scarso riflesso alla ruminazione e, in definitiva, alla comparsa di cicli ruminativi meno intensi e scarsamente rimescolativi, con conseguente minore attacco della fibra da parte della flora microbica. Il tutto esita in un latte altalenante sia in quantità che in qualità…
Anche stimoli dolorifici di diversa provenienza (urti e competizione per il cibo in stalle con fronte di mangiatoia non sufficientemente ampio, tori che spingono le bufale, lotte gerarchiche) possono inibire in via riflessa i movimenti dei prestomaci, si ipotizza per eccessiva secrezione di adrenalina e di ormoni dello stress in generale. Aggiungiamo anche il fatto che con il salire delle temperature (in campania i 30 gradi in primavera non sono evento raro) si ha un aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, con conseguente spossatezza degli animali seguita da calo dell’ingestione di sostanza secca.
Mozzarella appena formata
Minore ingestione di sostanza secca può determinare, oltre al calo produttivo in generale, uno spiccato calo del tenore proteico del latte e della sua resa in mozzarella.
Quindi, al fine di evitare tali rischi, una mandria non dovrebbe mai produrre in inverno meno del 50% di latte che produce in estate, al fine di non concentrare eccessivamente i parti nell’arco di due o tre mesi, per giunta coincidenti con ore di luce maggiori e caldo in salita.
L’allevatore deve altresì conservare o approvvigionarsi dei migliori foraggi da somministrare nella delicata fase di picco produttivo; fieni leggeri e digeribili facilitano l’ingestione e l’opera dei batteri che degradano la cellulosa e producono, alla fine grasso nel latte. Fondamentale gestire i bisogni di energia e proteina apportati con i mangimi, fermo restando che è pur sempre meglio puntare ad una ruminazione efficiente e ad un latte di qualità di grande richiesta, che puntare alle sole produzioni quantitative.
Latte di qualità significa, poi, sanità di mandria e tassi di fertilità elevata.
» Articolo tratto dalla Rivista TerrAmica – num. 5 Luglio 2016 «