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Un uso innovativo delle piante per scopi ambientali


di Francesco Teri


Come si tende sempre più a sottolineare, le funzioni dell’attività agricola non si esauriscono nella produzione di beni, alimentari e non, ma includono anche la produzione di una serie diversificata di servizi, di natura ambientale, sociale, ricreativa. In particolare, un servizio che suscita un interesse sempre maggiore, vista la sua importanza, è quello del ripristino ambientale; qui vogliamo soffermarci in particolare sull’azione di disinquinamento dei suoli.


Il problema


Quello dell’inquinamento del suolo è un problema di notevole preminenza nella società attuale, eppure non sembra essere tenuto in grande considerazione; l’inquinamento dell’acqua e quello dell’aria, più appariscenti e più gravidi di conseguenze negative immediate per la salute umana, sono oggetto di un’attenzione più diffusa e consolidata. Eppure nel terreno vengono riversate dalle attività umane quantità considerevoli di agenti inquinanti, che non necessariamente vengono biodegradati o intrappolati stabilmente. È vero, entrambi questi processi agiscono nel suolo in una certa misura, ma spesso le sostanze immesse non vengono demolite e permangono nei suoli più o meno bloccate nella matrice organico-minerale, ma frequentemente passibili di essere dilavate andando a contaminare le acque di falda o di entrare nelle catene trofiche giungendo eventualmente fino agli esseri umani; senza contare la diminuzione di fertilità dei substrati contaminati. Una forma di inquinamento, dunque, che provoca danni indiretti e a lungo termine, ma nonostante ciò – o forse meglio a causa di ciò – assai temibile. Gli inquinanti in oggetto sono molteplici, classificabili in organici e inorganici: i primi rappresentano una gamma molto diversificata per struttura chimica e per origine (ad esempio derivati del petrolio, solventi industriali, diossina, esplosivi, fitofarmaci), i secondi si identificano sostanzialmente con la categoria dei metalli pesanti. Vi sono molte fonti da cui queste sostanze giungono al suolo: in parte vi si depositano dall’atmosfera, dove vengono immesse in vario modo (da attività industriali, processi di estrazione mineraria, centrali termoelettriche, termovalorizzatori, traffico veicolare, impianti di riscaldamento), in parte derivano dai prodotti usati in agricoltura, in parte da rifiuti, scarichi e altre contaminazioni dirette. Oltre al problema dell’inquinamento diffuso legato alla compresenza di varie fonti distribuite nel territorio, esistono problemi di inquinamento puntiforme dovuti alla presenza in alcuni siti di aree gravate da quantitativi ingenti di sostanze inquinanti: prevalentemente siti minerari e industriali attivi o dismessi, siti che richiedono veri e propri interventi di ripristino ambientale, tra l’altro oramai imposti dalla legge.


Tunnel


Le soluzioni


Per questi interventi di ripristino, oltre alla semplice sostituzione del suolo contaminato con suolo «sano» (con enormi problemi di smaltimento del primo, che si configura a questo punto come un rifiuto speciale), sono state proposte e impiegate diverse tecniche: alcune agiscono in situ, quindi direttamente nel punto oggetto della bonifica, altre ex situ, cioè sulla massa di suolo allontanata e trattata in impianti appositi, per essere poi riportata al suo posto. Esistono trattamenti meccanici, fisici e chimici basati su principi diversi e applicabili a inquinanti diversi: ad esempio separazione fisica, processi elettrochimici, trattamenti termici, lavaggio, incenerimento, soil venting (iniezione di aria con sua aspirazione e depurazione). Comuni a questi differenti sistemi sono alcuni limiti che ne rendono difficoltosa l’applicazione: costi molto elevati, consumi energetici pure elevati, notevole impatto ambientale; anche quando si ottenga un buon risanamento, si può avere alterato le caratteristiche fisiche, chimiche, biologiche del suolo al punto da averne distrutto la fertilità e da averlo trasformato in massa inerte incapace di supportare un ecosistema. A ciò si aggiungano i costi di scavo e trasporto per tutte le tecniche ex situ. Alternative interessanti vengono dall’utilizzo di trattamenti di tipo biologico (biorimediazione), i quali impiegano appunto organismi viventi, sostanzialmente microrganismi oppure piante (o una combinazione dei due). In particolare vogliamo qui guardare più da vicino la tecnica che prevede l’impiego delle piante, nota come fitorimediazione o fitobonifica.


Le tecniche fitorimediative


Esistono diverse forme di fitorimediazione, in quanto diversi possono essere i meccanismi con cui la pianta interagisce con la sostanza inquinante da trattare; ogni forma trova uno specifico campo di applicazione, legato alla natura dell’agente inquinante, alle essenze vegetali utilizzabili, al contesto e alle finalità dell’intervento. Nella fitoestrazione l’inquinante viene assorbito dal suolo e traslocato nelle parti aeree della pianta, che vengono successivamente allontanate; non si tratta semplicemente di spostare il problema da un’altra parte: la massa vegetale raccolta è molto più facilmente gestibile, e può essere sottoposta a combustione ottenendo alla fine come materiale da smaltire un quantitativo di ceneri di volume ridotto. Nella fitostabilizzazione invece l’inquinante viene trattenuto a livello radicale in vari modi (accumulo nelle radici, adsorbimento sulla loro superficie, precipitazione nella rizosfera); il fine in questo caso non è tanto allontanarlo dal sito, quanto bloccarvelo in forme innocue evitandone la possibile dispersione. La fitodegradazione sfrutta il metabolismo vegetale per trasformare chimicamente gli inquinanti assorbiti dalla pianta in sostanze innocue, raggiungendo così lo scopo di eliminare di fatto l’agente inquinante; ciò è possibile per alcune sostanze organiche, chiaramente non per i metalli pesanti, non ulteriormente degradabili. Tale precisazione riguarda anche la fitovolatilizzazione, in cui l’agente di contaminazione, o più frequentemente i prodotti della sua degradazione, vengono emessi dalla pianta in atmosfera. La rizofiltrazione viene applicata per il trattamento di acque contaminate: in questo caso l’inquinante viene in parte assorbito e in parte trattenuto sulla superficie radicale di piante cresciute in acqua, facilmente rimovibili e smaltibili alla fine del trattamento. Infine la rizodegradazione sfrutta un’azione sinergica di vegetali e microrganismi rizosferici; questi ultimi possono svolgere attività degradativa diretta, immobilizzare inquinanti, aumentarne la biodisponibilità per le piante, favorirne la precipitazione in prossimità delle radici.


Impianto di fitorimediazione
Impianto di fitorimediazione con salici e pioppi in North Carolina (http://ideonexus.com/)



Quali piante?


Le essenze impiegate in interventi di fitobonifica devono avere alcune caratteristiche imprescindibili: tolleranza nei confronti della sostanza inquinante, efficacia di azione secondo le modalità proprie della tecnica impiegata, adattamento al contesto ambientale, facilità di gestione. È quindi chiaro che la scelta delle specie sarà determinata dai fattori che caratterizzano la situazione in cui concretamente si va a operare. In linea generale, una categoria di piante guardata con notevole interesse è quella delle iperaccumulatrici, capaci di assorbire quantitativi estremamente elevati di determinati elementi chimici e di trasportarli nei loro organi epigei, operando una concentrazione dell’elemento nei tessuti vegetali rispetto ai valori presenti nel suolo. Molto interessanti soprattutto a scopi fitoestrattivi, queste specie sono però in prevalenza originarie di areali tropicali e subtropicali, con conseguenti difficoltà di adattamento ai climi temperati, e sono spesso piante erbacee con apparato radicale poco profondo e scarsa produzione di biomassa. Per avere una buona rimozione degli inquinanti occorrerebbe invece una crescita sostenuta con abbondante produzione di biomassa, in modo da poter asportare maggiori quantitativi degli inquinanti stessi. La ricerca si è quindi orientata verso piante con queste caratteristiche, come ad esempio la senape indiana (Brassica juncea) o il girasole (Helianthus annuus), percorrendo anche la strada dell’ingegneria genetica per fornirle di geni che ne aumentino la resistenza agli inquinanti e il loro accumulo. Una forte attenzione viene rivolta a piante arboree a sviluppo rapido ed elevato, quali il pioppo (Populus spp.), il salice (Salix spp.), la Paulownia tomentosa.


Piantagione di pioppi
Piantagione di pioppi a scopo di fitorimediazione in Alabama (http://thegrove.americangrove.org/)


Vantaggi e limiti


La fitobonifica permette di superare quei limiti che abbiamo visto rendere onerosa l’applicazione di tecniche alternative, onerosa in termini economici, energetici, ambientali. L’utilizzo della fonte energetica solare da parte delle piante riduce la necessità di altri apporti energetici; il costo del trattamento risulta nettamente inferiore a quello di altre tecnologie. Si tratta di una tecnica applicabile in situ, evitando in tal modo le spese di trasporto della massa di suolo. L’impatto ambientale è minimo e anzi, si può parlare di un miglioramento ambientale del sito, sia in termini di fertilità del suolo che in termini ecologici e paesaggistici. Lo svantaggio più evidente è invece la lentezza di azione, in rapporto alle tecnologie non biologiche: occorrono degli anni per ottenere risultati apprezzabili. Il fatto di utilizzare sistemi biologici, dunque complessi, richiede di porre molta attenzione ai vari fattori in gioco: specie vegetali impiegate, natura e concentrazione degli inquinanti, caratteristiche ambientali del sito; solo una corretta combinazione di questi può permettere di raggiungere i buoni risultati in termini di efficacia che le sperimentazioni in campo stanno mostrando. Infine, occorre tenere sempre presente l’importanza di una corretta gestione agronomica della coltura, visto che pur sempre di una coltura stiamo parlando, anche se con una innovativa finalità ambientale.


Bibliografia


AA. VV. (2004), Fitorimediazione – Bonificare con le piante, Fitomed – Quaderno Informativo n. 1-2


Brooks R. R. (ed.) (1998), Plants that Hyperaccumulate Heavy Metals, CAB International, Wallingford


EPA (2000), Introduction to Phytoremediation, U.S. Environmental Protection Agency/600/R-99/107, Cincinnati


Mancuso S. (2002), L’uso di specie legnose per il recupero di aree inquinate (fitorimediazione), Annali Accademia Italiana Scienze Forestali, 51: 49-61


Mazzucotelli V., Bocchi S. (2002), Bonificare con le piante, Acer, 4: 57-63


Raskin I., Ensley B. D. (2000), Phytoremediation of Toxic Metals – Using Plants to Clean Up the Environment, John Wiley & Sons, Inc., New York


Terry N., Bañuelos G. (eds.) (2000), Phytoremediation of Contaminated Soil and Water, Lewis Publishers, Boca Raton


 


Francesco Teri, laureato in Scienze e tecnologie agrarie presso l’Università degli Studi di Firenze, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Economia, ecologia e tutela dei sistemi agricoli e paesistico-ambientali presso l’Università degli Studi di Udine. E-mail: costerella@supereva.it


 






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