di Amedeo Alpi
L’argomento degli OGM è uno di quelli a forte componente scientifica; una società adulta, che ha superato lo stadio della superficiale emotività, dovrebbe avere un rapporto di fiducia verso i ricercatori. Ebbene, una delle cose più tristi del dibattito in corso è la netta divisione tra la maggioranza degli “addetti ai lavori” e la pubblica opinione, chiaramente spostata su posizioni contrarie o profondamente scettiche. L’atteggiamento negativo di gran parte del pubblico è stato “corroborato” da varie organizzazioni, alcune delle quali, tra l’altro, cavalcando l’onda emotiva antitransgenica, hanno certamente ottenuto vantaggi per gli affari di loro interesse. Anche se non c’è nulla di male a proteggere i propri affari, molto da ridire c’è nell’atteggiamento che demonizza l’attività altrui (e molta demonizzazione è stata fatta sia dell’attività delle multinazionali di settore, come pure per l’attività dei ricercatori dedicatisi alla tecnologia del DNA ricombinante).
La componente scientifica più direttamente interessata alle problematiche degli organismi GM è l’area molto vasta della biologia ed in particolare quella della biologia vegetale con finalizzazione agraria. Questo ampio ambito scientifico è largamente orientato verso una posizione di non rifiuto aprioristico di questi organismi ed una buona parte di esso è assolutamente favorevole ad un loro impiego in agricoltura come pure in altri settori produttivi. Se quindi la comunità scientifica dedicata alla biologia delle piante e che include genetisti, biologi molecolari, fisiologi, biochimici, patologi, microbiologi, guarda con fiducia alla tecnologia del DNA ricombinante, come mai la pubblica opinione è così riluttante se non addirittura contraria ad accettare gli OGM? La risposta al quesito è complessa e rientra nei comportamenti, certamente non sempre molto lucidi, delle cosiddette “società di massa” fortemente condizionate dai mezzi di comunicazione (o, meglio, di informazione; è infatti difficile “comunicare” con la televisione, come pure con tutti quei giornali che hanno operato una scelta redazionale precisa sostenuta da frequenti articoli contrari e da sporadiche testimonianze a favore) e facili prede di suggestioni (una delle più frequenti è: “la salvaguardia della salute dei bambini”). Certamente la società, globalmente intesa, non può comprendere facilmente tutto quanto viene scritto e detto sugli OGM; una piena comprensione dei problemi richiederebbe almeno un approfondimento sul piano tecnico-scientifico che, già di per sé, è molto specialistico, inoltre è richiesta anche una discreta padronanza delle numerose interfacce dell’argomento in questione con altri livelli di valutazione, oltre a quello strettamente scientifico, quali, tanto per citarne alcuni, quello economico, etico ed alimentare.
I circa 170 milioni di ettari che nel 2012 sono stati coltivati nel mondo e che rappresentano oltre il 10% della terra coltivata globale, non sono un attentato alla umanità, ma producono alimenti e materiali di vario uso che, usati da quasi un ventennio, non hanno creato problemi nelle varie aree del pianeta (le coltivazioni GM per quanto concentrate nell’America del Nord e del Sud sono ampiamente presenti in Asia, India e Cina, con presenze in Africa ed Australia; sono invece presenti in poco più di 100.000 ha in Europa il “vecchio” continente). Non si sono mai avuti effetti nocivi sulle popolazioni, ma neppure sugli ambienti; quando qualche ipotetico problema è stato sollevato si è accertato che questo non era certo di entità superiore a quelli generati dalle comuni piante agrarie ottenute con metodi di miglioramento genetico tradizionale e coltivate da molti decenni senza alcun controllo. Al contrario gli organismi GM passano attraverso rigorosi controlli prima di essere approvati per la coltivazione. E’ il caso di ricordare che la letteratura specializzata è eccezionalmente ricca di contributi scientifici centrati su ipotesi fatte appositamente per rispondere alle numerose critiche dei contrari alle piante GM e talora avanzate anche dopo l’approvazione da parte dei vari organismi ufficialmente deputati al loro controllo . Infatti molti “rischi” sono stati denunciati per prodotti già in commercio, ma nella assoluta maggioranza dei casi, questi rischi sono risultati privi di fondamento.
…e l’agricoltura italiana?
Posso dire, insieme a molti esperti del settore, che l’ agricoltura italiana è nel complesso molto debole sul piano economico e strutturale, con le solite lodevoli eccezioni, ma che appunto rimangono tali. Il settore è certamente malato, ma con moltissimi (troppi) medici intorno al capezzale. Non posso parlare delle varie soluzioni proposte ora dall’uno ora dall’altro di questi illustri medici spesso spalleggiati da varie associazioni agricole, cooperative di consumo, di servizio etc. etc. Rimane che la coltivazione delle nostre campagne è un fatto altamente strategico per tutto il Paese, ma sino ad ora non è emerso niente che sia veramente risolutivo affinché si possa avviare l’indispensabile rinascita. Ma non c’è solo questo: malauguratamente sull’agricoltura si sono centrate le attenzioni di tanti gruppi, gruppetti e anche “grupponi” che hanno vari interessi molto lontani dalla coltivazione e dall’allevamento, ma che da queste attività traggono la loro ragione d’essere. Mi voglio spiegare meglio: tutti questi gruppi conducono attività, talora anche assai redditizie, ma che non sono catalogabili come rendite agricole; tutt’al più usano prodotti dell’agricoltura alla quale però va una percentuale molto ridotta di tali redditi. Si assiste anche spesso ad una esaltazione, da parte di questi stessi gruppi, del “mondo contadino”, della “nostra tradizione”, dei “prodotti del nostro territorio” e cosi via, ma tutto ciò non cambia la modesta realtà di chi vive del lavoro in campagna. Pertanto di fronte ad una crisi così forte dell’attuale agricoltura italiana, cosa si può rispondere alla eventuale domanda: quale agricoltura sarà la più promettente per il futuro? Ho già anticipato che la risposta a questa domanda è complessa; mi piacerebbe approfondire l’argomento perché ho idee in merito. Nell’ambito del nostro incontro mi limito a constatare quanto sia sciocco mettere in alternativa le “agricolture” cosiddette “tradizionale”, “biologica” e “biotecnologica” tanto per citare le principali, ma l’elencazione potrebbe continuare. Si sta infatti conducendo in più sedi una lotta costante per il prevalere di una di queste forme di agricoltura; sembra proprio che mentre l’agricoltura italiana è al momento più basso del suo significato economico nel contesto delle attività italiane , i “cittadini” si accapigliano su questioni marginali. Credo che l’agricoltura italiana non debba perdersi in queste lotte di dubbio significato, ma anziché impegnarsi nei distinguo su cosa è meglio fare dovrebbe dare spazio a tutte le forme di agricoltura oggi possibili affinché si possa vedere in campo quali sono i risultati. Non escludere nulla per ragioni ideologiche, ma includere tutto per scegliere poi solo quello che appare convincente sul piano del reddito e della sostenibilità.
Pertanto le piante che vengono dalla tecnologia del DNA ricombinante possono giocare un ruolo importante nel contesto italiano, così come stanno già facendo in gran parte del mondo. Opporsi è stato un errore che ci ha ulteriormente indebolito.
Voglio chiudere questo breve intervento ricordando che ad una “lobby biotech”, certamente esistita ed operante, corrisponde una opposta ma simmetrica “lobby anti-biotech” (che si vuole opporre ai “danni” effettuati dalla cosiddetta agricoltura industriale: la crisi dei saperi tradizionali, il monopolio del mercato dei semi, lo sfruttamento dei piccoli agricoltori, etc… ). In base a considerazioni varie l’Unione europea, ma soprattutto l’Italia, ha, nei fatti, rifiutato i prodotti agrari della tecnologia del DNA ricombinante, generando le contraddizioni che ho cercato di elencare e accettando, di fatto la posizione della lobby antibiotech. Se invece , pur respingendo una parte degli attuali prodotti, avesse aperto alla ricerca consentendo le prove sperimentali in campo con tanto di comparazione sia qualitativa che quantitativa delle produzioni, oltre ai controlli previsti per la salute umana ed animale e per la salvaguardia dell’ambiente, allora la posizione sarebbe stata accettabile. L’attuale situazione di rifiuto non può essere condivisa dalla comunità scientifica.
Per ultimo mi sia consentito ricorrere ad una espressione che fu proferita da un pontefice della Chiesa cattolica molti anni fa, quando le novità dell’ultimo Concilio avevano disorientato i credenti divisi tra sostenitori e detrattori delle novità emerse dal Concilio stesso. Disse il Papa che nelle vicende umane si può peccare per inerzia o per intemperanza e considerato che nella lunga storia della Chiesa vi era stata molta inerzia, riteneva che fosse ormai sopportabile qualche piccola intemperanza. Proprio così! Dopo una incredibile prudenza della Europa ed in particolare dell’Italia sull’argomento OGM, mi auguro proprio che giunga, per il bene di tutti, uno scossone di “intemperanza”.
Bene ha fatto Francesco Marino a convocare a Firenze un ottimo gruppo di relatori tra i più competenti in Italia, nell’ambito della biologia vegetale applicata alle coltivazioni, e tutti orientati a guardare con interesse all’impiego delle piante “geneticamente modificate” in Europa e nel mondo. Qualcuno si sarà chiesto: ma organizzare un convegno con un gruppo di relatori con analoga posizione non sembrerà una totale chiusura al dialogo con coloro che si oppongono all’uso dei cosiddetti OGM? La risposta è semplice: tutti i relatori presenti al convegno fiorentino hanno avuto lunga esperienza di confronti con la parte avversa, ma si è trattato di un estenuante dibattito tra contrari e favorevoli agli OGM, che da oltre 15 anni si sta conducendo nel nostro paese senza alcun risultato di reciproca mitigazione delle posizioni; in altre parole, un dialogo tra sordi. Pertanto il convegno organizzato da Marino è stata una occasione per affermare la posizione, condivisa da una vasta parte della comunità scientifica, sostanzialmente non contraria agli OGM ed in antitesi a quel “pensiero unico” che vede nella intangibilità del genoma la via italiana per un travolgente successo dei suoi prodotti, naturalmente “made in Italy”.
Amedeo Alpi, laureato in Scienze Agrarie presso Università di Pisa, ottenne la libera docenza in Orticoltura e Floricoltura presso l’Università di Pisa. Nel 1975 è stato Commissario del Laboratorio Virus e Biosintesi del CNR a Milano.Dal 1975 al 1981 è stato membro del Consiglio scientifico dell’Istituto di Biosintesi vegetali del CNR a Milano. Dal 1985 al 1989 è stato presidente della Società italiana di Fisiologia vegetale (SIFV). Altri incarichi Dal 1989 delegato nazionale presso la Federation of European Societies of Plant Biology (FESPB).Dal 1992 al 1996 presidente europeo della FESPB. Dal 1989 al 2000 presidente del Comitato Scientifico del Parco di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli della Regione Toscana. Dal 1991 al 1997 membro del consiglio scientifico dell’Istituto di Mutagenesi e Differenziamento del CNR di Pisa. Dal 1992 al 2003 membro del Comitato italiano del International Geosphere Biosphere Programme (IGPB). Nel 1995 Presidente del Consiglio scientifico per l’Orticoltura Industriale del CNR di Bari. Dal 1998 al 1999 Commissario dell’Istituto di Mutagenesi e differenziamento del CNR di Pisa. Dal 1995 al 2003 Preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa. Dal 1997 ad oggi (2011) Membro del comitato MIUR per la valutazione dei progetti di collaborazione scientifica tra Italia e Spagna Negli ultimi anni è stato membro, ed in alcuni casi lo è ancora, di vari Consigli scientifici accademici, di organismi di ricerca e di Comitati ministeriali. Dal 1994 Membro dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, 1997 Membro dell’Accademia Nazionale dell’Agricoltura di Bologna, 2001 Membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, 2004 Ordine del Cherubino, conferito dall’Università di Pisa.
Ricerca Scientifica Proteomica nelle piante, finalizzata all’individuazione di proteine con ruoli fondamentali nella risposta allo stress da basse temperature
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