Il Tartufo
Generalità botaniche e ricerca in natura dei carpofori
di Flavio Rabitti
Tartufi neri estivi o Scorzoni (Tuber aestivum Vitt.)
(Foto di Flavio Rabitti)
Botanica
Hydnon, Tuber, Ramech Alchamech Tufusnon, Truffle: sono tutti modi (antichi e non) di chiamare il “Re dei Funghi”, il Tartufo. Questo non è un tubero – come molti pensano – ma un fungo ipogeo appartenente alla classe degli Ascomiceti, che vive in simbiosi micorrizica con determinate piante superiori. In realtà quello che viene mangiato ed al quale attribuiamo normalmente il nome di tartufo non è altro che il suo corpo fruttifero, morfologicamente simile ad un tubero, di forma più o meno rotonda, con protuberanze e cavità, a seconda della specie e del terreno nel quale si è sviluppato.
Tutti i funghi, così come il tartufo, sono caratterizzati da elementi che li rendono diversi da ogni altra specie animale o vegetale, così tanto da necessitare l’inclusione in un Regno speciale, il Regno dei Funghi. Per esempio, nessun fungo ha la fortuna di possedere la clorofilla, indispensabile invece agli organismi vegetali per elaborare la sostanza organica necessaria al loro sviluppo; di conseguenza i funghi traggono la sostanza organica da altri organismi, vivi o morti, divenendo rispettivamente parassiti o saprofiti. Un’altra possibilità è quella di costituire una vera e propria associazione simbiontica con altri organismi viventi (l’esempio più classico è attribuito al Lichene, associazione fra un cianobatterio ed un fungo), instaurando una simbiosi mutualistica, dove ambedue le specie traggono un qualche vantaggio dall’unione.
Nel caso del tartufo la simbiosi mutualistica viene instaurata a livello radicale con piante superiori appartenenti a diverse specie, denominata appunto “micorrizia”, mentre l’insieme delle radici invase dal micelio prende il nome di “micorriza”.
Vi sono due tipi principali di micorrize: le endomicorrize e le ectomicorrize. Nel primo caso le ife fungine penetrano all’interno delle cellule dello strato corticale della radice (penetrazione intracellulare) formando gomitoli, rigonfiamenti o minute ramificazioni; nel secondo caso invece il fungo circonda le cellule corticali delle radice, senza quindi penetrarvi all’interno.
Sull’utilità della micorrizia sono stati fatti diversi studi ed avanzate molte ipotesi; tali studi hanno messo in evidenza come per certe specie vegetali la micorrizia sia addirittura indispensabile, particolarmente nei primi stadi dello sviluppo della pianta (come nelle orchidee). In altri casi invece la simbiosi è utile, ma non indispensabile alla vita della pianta stessa (come nel caso delle associazioni con i funghi del genere Tuber, al quale appartengono i nostri tartufi).
Durante la simbiosi la pianta micorrizata riceve un vantaggio dall’associazione instaurata, in quanto il fungo assorbe acqua e sali minerali dal terreno (soprattutto fosforo da forme insolubili), sostituendosi ai peli radicali (che non vengono più formati dalla radice) e ricevendo dalla pianta i carboidrati necessari al suo sviluppo.
Le micorrize, oltre ad aiutare la pianta nella sua nutrizione, sembra che abbiano risvolti positivi anche sulla resistenza della pianta a condizioni ostili (acidità del suolo, freddo, aridità) ed a metalli pesanti tossici presenti nel suolo.
Nel caso dei tartufi, nel momento in cui il fungo finisce di compiere il suo normale ciclo evolutivo (che negli esperimenti effettuati con la quercia varia da 12 a 14 anni circa dall’infungamento), dal micelio iniziano ad originarsi dei corpi rotondeggianti di vario colore, profumo e grandezza. Sono difatti proprio questi i corpi fruttiferi del fungo simbionte che, nelle specie commestibili, prendono il nome di tartufi.
Questo fantastico prodotto della nostra terra, in botanica detto ascoma, è formato da uno strato esterno detto “peridio” (la scorza) e da una polpa detta più precisamente “gleba”; quest’ultima è quasi sempre carnosa, di colore variabile (a seconda della specie fungina, del grado di maturazione e della pianta ospite) ed è attraversata da fasci di filamenti di micelio che circoscrivono gli “aschi”, contenenti una o più spore.
Gli ascomi (tartufi), giunti a completa maturazione, vanno incontro ad un più o meno rapido processo di disfacimento che porta alla liberazione degli aschi e poi delle ascospore, le quali, grazie ai numerosi organismi viventi presenti nel territorio (lombrichi, lumache, ma anche scoiattoli, caprioli, cinghiali, etc.), riescono a disseminarsi anche a notevole distanza dal luogo di formazione. Le ascospore, visibili solamente al microscopio, sono proprio gli organi riproduttori della specie ed assumono diverse forme e colori a seconda delle specie fungina e del grado di maturazione del carpoforo.
Tutte queste importanti caratteristiche, come il colore del peridio, il suo aspetto, il colore della gleba (polpa), l’aspetto dei fasci miceliari (venature) ed il numero, dimensione e forma delle spore, costituiscono i metodi per il riconoscimento delle numerose specie di tartufo presenti nel territorio.
Tartufi bianchi pregiati (Tuber magnatum Pico) danno bella mostra di sè
(Foto di Flavio Rabitti)
La cerca
Numerose specie animali, in natura, sono capaci di percepire l’odore del tartufo (o meglio delle sue spore giunte a maturazione); infatti, la sua straordinaria unicità, lo rende un piatto molto apprezzato non solo dalla specie umana, ma anche da numerosi altri organismi viventi, come scoiattoli, topi, caprioli, cinghiali, istrici, etc.
L’uomo, avendo perso nel corso dei millenni gran parte delle potenzialità dei propri sensi, si deve necessariamente avvalere di qualche valido e fidato compagno nella ricerca del tartufo: il cane.
Questo straordinario animale deve essere difatti l’unico ausiliario del ricercatore (o tartufaio) secondo la legislazione vigente, anche se altre specie – tecnicamente – si presterebbero altrettanto bene, se non meglio, allo scopo del ricercatore (es. maiale).
Il cane da tartufo deve avere determinate ed indispensabili qualità per svolgere proficuamente il proprio lavoro; il fiuto, molto fine ed acuto, è senz’altro la sua principale dote. Il cane è infatti capace di seguire il cono d’odore emanato dal carpoforo maturo ed individuare, rapidamente, il preciso punto del terreno al di sotto del quale si cela il tartufo.
E’ utile precisare che non esiste una razza specifica per la ricerca del tartufo; vi sono razze che si prestano meglio allo scopo e razze che si prestano peggio, ma tutte le razze, potenzialmente, possono essere addestrate alla cerca ed essere capaci di rinvenire i preziosi carpofori profumati.
La genetica quindi può aiutare ma non sostituire l’addestratore, che sarà quindi il principale responsabile della riuscita del lungo e meticoloso percorso di addestramento.
Un caro amico, nonché esperto tartufaio, sosteneva che “per addestrare bene un cane ci vogliono molti mesi, a volte anche anni; per rovinare tutto il lavoro fatto possono bastare anche solo 5 minuti”.
Ed è proprio per questo che è necessario conoscere a fondo il cane ed il suo modo di pensare; il bravo tartufaio dovrà instaurare un feeling particolare con il suo fedele compagno, una vera e propria simbiosi nella quale ambedue i soggetti si impegnano, a volte con molta fatica, a raggiungere lo stesso obiettivo: insieme.
Durante la cerca il cane ben addestrato, percepito il cono odoroso, procede dapprima fendendo l’aria con le narici e successivamente, una volta individuata la tartufaia, ispezionando meticolosamente il terreno muso a terra, zigzagando fino a localizzare il punto preciso al di sotto del quale si trova il tartufo. Il tartufaio deve, a questo punto, fermare il cane con un preciso comando verbale/gestuale, senza bisogno di dover toccare l’animale con un sol dito; il cane deve rispondere al comando sedendosi in prossimità del punto individuato ed aspettare che il padrone faccia il resto. Il dissotterramento del tartufo (che solitamente viene rinvenuto a profondità comprese fra i 5 ed i 50 cm), deve avvenire con l’ausilio di un apposito vanghetto, scavando solamente in corrispondenza della posizione individuata dal cane al fine di evitare o ridurre inutili danni al terreno circostante. E’ opportuno ricordare che lo scavo in linea continua o in tutta l’area di presunta presenza del fungo è, oltre che irrazionale e deleterio per lo sviluppo e la formazione dei carpofori, punito duramente dalla legislazione vigente.
Il tartufaio, recuperato il tartufo, deve procedere immediatamente al riempimento della buca neoformata impiegando lo stesso terreno che la componeva, evitando di esporlo al prosciugamento ed eseguendo così un’importante operazione sempre meno eseguita dai ricercatori (che eviterà di danneggiare le radici della pianta simbionte ed il micelio fungino presente nelle vicinanze). Tutto ciò consentirà la continuità della produzione, assicurando le raccolte future e, non per ultimo, il rispetto della legge, che prevede esplicitamente questo genere di operazione.
Inoltre, le buche lasciate aperte da ricercatori senza scrupoli e senza alcuna cognizione botanica, consentiranno anche ad altri tartufai di individuare con assoluta certezza una buona zona di ricerca; è anche per questo motivo che quindi dovrà essere preoccupazione prioritaria del cercatore ricoprire con attenzione le buche, mimetizzando inoltre con cura il punto di scavo con fogliame e ramaglia di vario tipo.
E’ utile ricordare agli appassionati di questo affascinante mondo, che l’esercizio delle operazioni di ricerca e raccolta dei tartufi in Italia è regolamentato da normative regionali e subordinato al possesso di un patentino (consegnato al ricercatore al superamento di uno specifico esame), necessariamente accompagnato dall’attestazione di pagamento di una specifica tassa annuale.
“Luna” che posa davanti ad un piatto di Tuber aestivum Vitt. da lei rivenuti poco prima
(Foto di Flavio Rabitti)
Flavio Rabitti, diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze, è laureato in “Tutela e Gestione delle Risorse Faunistiche” alla Facoltà di Agraria di Firenze; appassionato di tartufi, si diletta a cercarli e raccoglierli da circa 10 anni.
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