di Nicola Galluzzo
1. Introduzione
Il settore agricolo italiano si è contraddistinto per una molteplicità di fenomeni strutturali e congiunturali tali da farlo definire un settore declinate in senso ampio. A parziale supporto di tale affermazione basta considerare come le condizioni pedoclimatiche, orografiche e gestionali abbiano finito per assegnare all’agricoltura italiana delle potenzialità e delle debolezze non facilmente riscontrabili in altri Paesi europei. Un elemento che, senza dubbio, contribuisce a ridurre la potenzialità competitiva, ma non la capacità competitiva ed imprenditoriale che, invece, caratterizza e pervade diffusamente la stragrande maggioranza delle imprese agroalimentari italiane, è la ridotta superficie media aziendale, la quale, anche alla luce dei recenti dati statistici forniti dall’Istat, ha confermato un leggero incremento. Tuttavia, tale incremento delle superficie media aziendale risulta esse sempre inferiore sia al valore medio dell’Unione europea sia di quello di altri competitors quali Regno Unito, Germania e Francia. La superficie complessiva per addetto si colloca ben al di sotto del valore medio europeo pari a circa quindici ettari e le aziende con una superficie superiore ai 50 ettari pro capite interessano solo una quota inferiore al 5% delle aziende complessivamente attive in Italia.
2. Le nuove sfide e le opportunità offerte
Le possibilità che i policy makers hanno offerto alle imprese agricole dell’Unione europea affinché potessero essere facilmente competitive e capaci di rispondere adeguatamente alle nuove sfide ambientali ed economiche internazionali (Protocollo di Kyoto, WTO, ecc.) sono state numerose e facilmente identificabili. Il II pilastro della Politica agricola comunitaria, infatti, ha cercato di drenare risorse finanziarie dal I pilastro (politiche dei mercati) per dirottarle e riposizionarle sulle politiche agricole finalizzate allo sviluppo delle imprese agricole multifunzionali e/o pluriattive.
Allo stato attuale la Politica agricola comunitaria rimane ancora una politica abbastanza centralizzata e concertata tra i diversi Paesi membri per ciò che attiene le proprie linee guida e di indirizzo, lasciando ai diversi Stati membri alcune possibilità gestionali e attuative al fine di rendere più rispondenti gli interventi alle specificità territoriali. Un punto di debolezza di tale tipologia di strategia permane ancora ed è ascrivibile ad una limitata intersettorialità-trasversalità degli interventi e ad una mancanza di una politica capace di coinvolgere maggiormente tutti i soggetti agricoli attivi sul territorio e che sappia farsi parte attiva nel recepire le loro istanze ricalcando, di conseguenza, l’approccio basso-alto, tipico della programmazione Leader. A seguito dell’Health check della Pac, svoltosi nella seconda decade di novembre 2008, da parte di alcuni soggetti del settore primario è emersa una proposta di rinazionalizzazione della politica agricola, finalizzata ad assegnare ai diversi Stati membri una piena competenza operativa-gestionale-normativa ed economica dei fondi previsti. Ciò potrebbe rappresentare un passo indietro perché non sempre un eccessivo federalismo potrebbe generare una maggiore efficienza nella struttura amministrativa e gestionale; infatti, si potrebbero creare delle cristallizzazioni funzionali-burocratiche che finirebbero per rallentare il percorso gestionale complessivo con il rischio di una disomogenea distribuzione delle competenze e dei poteri di cui l’attività agricola potrebbe subirne lo scotto maggiore. Una soluzione possibile dovrebbe essere quello di associare la nazionalizzazione ad un cofinanziamento, di pari entità e/o di entità superiore, da parte dei diversi Paesi membri al fine di garantire una maggiore efficienza ed efficacia nella spesa agricola. La necessità di semplificare l’aspetto burocratico appare essere un elemento centrale per rendere più efficiente e competitiva l’attività agricola e che, ancora, comporta degli impegni in termini di giornate spese in attività diverse.
3. Conclusioni
L’eccessiva burocratizzazione dei processi produttivi agricoli che interessano le aziende agroalimentari in maniera trasversale è un punto di debolezza imputabile ad una forma mentis che continua ad assegnare all’agricoltura gli stessi attributi, competenze e funzioni degli altri settori produttivi e non di valutare la funzionalità che essa svolge in maniera complessiva in un quadro di cultura agricola in senso ampio altamente complessa e complessificante.
Il concetto di cultura agricola presupporrebbe che tutti gli attori coinvolti, sia nelle filiere che nei distretti, abbiano una piena consapevolezza della peculiarità e specificità dell’attività agricola. Gli stessi produttori agricoli, tuttavia, devono riuscire ad aggregarsi tra loro per cercare di ridurre il potere oligopolistico degli attori a valle del percorso distributivo/produttivo. Ciò appare essere un vincolo molto stringente nel momento in cui ci si confronta con un sistema economico allargato, rappresentato dalla globalizzazione, che richiede nuove sfide da affrontare, le quali non possono essere lasciate all’iniziativa estemporanea di alcuni produttori agricoli ma che, invece, devono essere portate avanti da alcune organizzazioni di produttori che siano capaci di aggregare l’offerta e accorciare i processi di intermediazione. L’obiettivo della cultura agricola dovrebbe proprio essere finalizzato a favorire questi momenti aggregativi spaziali e temporali, stimolando tutti gli attori della filiera e degli enti locali nell’incentivare la realizzazione di questa strategia e di questo atteggiamento propositivo e attivo. Tutti i soggetti dovrebbe, quindi, incentivare le istituzioni e gli enti locali, a vario livello, affinché possano percepire questo cambiamento di fondo che sta interessando il settore primario e che vede ancora alcuni Paesi europei non avere una perfetta e completa visione dei problemi che caratterizzano il mondo agricolo, oramai in fase di transizione avanzata. La sfida della competitività passa, necessariamente, da un cambiamento di mentalità e di approccio al problema (da agricoltura a cultura agricola) che deve pervadere tutti i soggetti agricoli a tutti i livelli e che deve far capire la necessità di aggregare l’offerta e di avvalersi della collaborazione di una macchina burocratica più snella, che sappia tener conto delle asimmetrie informative le quali si generano tra domanda e offerta nel settore primario.
Nicola Galluzzo, dottore di ricerca in Scienze degli alimenti, si è laureato in Scienze agrarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, conseguendo il perfezionamento in Economia del turismo e in Gestione e organizzazione territoriale delle risorse naturali presso l’Università La Sapienza di Roma, in Studi europei presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova e in Controllo e autocontrollo degli alimenti presso la Facoltà di Medicina e chirurgia “A. Gemelli” di Roma. Assegnista di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (Inea). E.mail: nicoluzz@tin.it
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