di Nicola Galluzzo
1. Introduzione
La produzione del latte ha rappresentato per l’Unione europea un argomento di notevole interesse per l’indotto economico che riesce a coinvolgere in tutto il settore agro-alimentare e nelle industrie di trasformazione ad esso legate.
Il principio cardine del Trattato di Roma (1), istitutivo dell’Unione europea, aveva fissato, fin dal 25 marzo 1957, il raggiungimento, mediante la preferenza comunitaria di un livello di autosufficienza alimentare capace di rendere il consumatore europeo sicuro nei propri approvvigionamenti e a garantire, contemporaneamente, agli agricoltori dei livelli di vita adeguati agendo sulla leva del prezzo (2).
La produzione lattiero-casearia negli anni cinquanta appariva distribuita in maniera non uniforme tra tutti i paesi europei con delle disformità molto forti sia tra i diversi paesi che all’interno dello stesso paese (ad esempio bastava confrontare la produzione di latte tra Olanda e Italia oppure la differenza di produzione tra la provincia di Mantova e Brescia con quella ricavabile in altre province lombarde). Infatti, se nei paesi del nord Europa la produzione lattiero-casearia appariva essere abbastanza consolidata, in Italia permanevano grosse difficoltà nel soddisfare le richieste del mercato, poiché nel territorio italico l’allevamento bovino era basato su una elevata concentrazione di allevamenti finalizzati a produrre bovini da carne. Tutto ciò ha finito, nel tempo, per accentuare la specializzazione produttiva territoriale, acuendo i divari nel settore zootecnico a livello europeo; infatti, una disamina della distribuzione geografica degli allevamenti ha evidenziato l’esistenza di due grandi blocchi produttivi geograficamente contrapposti: i paesi del nord Europa, aventi una elevata specializzazione nella produzione del latte molto efficiente da un punto di vista della capacità di trasformazione e valorizzazione economica degli alimenti, e i paesi dell’area mediterranea (parte della Francia meridionale e Italia) nei quali ha prevalso la produzione di carne (vitelli a carne bianca e vitelloni). La produzione della carne appare essere, a livello fisiologico, meno capace di valorizzare e sfruttare gli alimenti utilizzati nel rumine; infatti, per produrre la carne, l’acido grasso base sintetizzato nel rumine è il propionico, che ha dei maggiori costi “energetici” per essere prodotto ed ha maggiori perdite in termini di metano e azoto non utilizzabile ma che rappresenta una perdita energetica netta.
I principi dell’autosufficienza alimentare e della preferenza comunitaria, attraverso gli interventi, previsti dal 1968 negli obiettivi generali e istitutivi della PAC (3), e a loro volta indicati nell’articolo 33 del Trattato di Roma, hanno previsto, per il settore del latte e per i prodotti lattiero-caseari, dei meccanismi di intervento e di aiuto alla produzione che hanno causato, nel lungo periodo, una degenerazione della situazione con la produzione di notevoli eccedenze, sia in termine di latte che di prodotti da esso derivati (burro e formaggi), che l’Unione europea ha cercato di porre a soluzione mediante ammassi gestiti a livello nazionale dall’Azienda italiana interventi sul mercato agricolo (Aima), struttura che altro non era se non il braccio operativo, a livello territoriale e decentrato, e di gestione degli interventi sul mercato agricolo secondo quanto previsto dal Feoga (4) Sezione Garanzia.
2. Le degenerazioni del sistema e i correttivi proposti
Negli anni ottanta, per cercare di tamponare le eccedenze produttive l’Unione europea ha introdotto dei criteri di contingentamento della produzione, mediante l’istituzione di un sistema di quote di produzione, negoziabili tramite affitto o compravendita, secondo norme ben precise, ma diversificate in ogni Stato membro. Ogni Stato membro fissava, infatti, un proprio Quantitativo Globale Garantito (QGG), ossia l’ammontare di prodotto oltre il quale lo Stato appartenente all’UE incorreva nel pagamento del superprelievo e assegnando ad ogni singolo produttore dei Quantitativi di Riferimento Individuali (QRI), ovvero delle quote individuali, oggetto, successivamente, di un contenzioso ancora in essere e, a mio avviso, di difficile soluzione perché se attuato coattamente e istantaneamente potrebbe determinare la chiusura per indebitamento e la vendita all’incanto di aziende agricole efficienti e se, invece, attuato mediante un recupero forzoso sui pagamenti disaccoppiati o sulle azioni finanziate dai Piani di Sviluppo Rurale regionale, potrebbe portare ad un disincentivo negli interventi di miglioramento produttivo e di crescita competitiva dell’azienda. Il ruolo della politica, in questo caso, dovrebbe perseguire le situazioni dolose e cercare di aiutare, come in parte sta facendo, le imprese “splafonatrici” con la possibilità di dilazionare i crediti su un ampio periodo di tempo, utilizzando dei tassi di interesse agevolato. Il regolamento istitutivo delle quote latte ha previsto la presenza di due “ammortizzatori agricoli”cui i Paesi membri possono accedere per cercare di contenere eventuali surplus produttivi ossia:
1) la riserva nazionale compresa nel QGG che gli Stati possono distribuire tra alcuni produttori;
2) la riserva comunitaria, pari allo 0,4% della somma dei QGG da distribuire tra i paesi che si ritenessero danneggiati dal sistema delle quote di produzione lattiero-casearia.
Il deterrente da utilizzare, per cercare di contrastare gli eccessi produttivi, era stato individuato nel superprelievo; esso consisteva in una penalità da far pagare in caso di superamento del QGG; tale penalità veniva ripartita tra i produttori attraverso un sistema di compensazioni le cui procedure sono diverse da tra i diversi Stati. L’Italia fin dalla prima applicazione del contingentamento della produzione decise di assumere su di se i costi del superprelievo e non addossandoli alle imprese agricole. Tutto questo ha generato un’aberrazione del sistema lattiero-caseario italiano, il quale ha continuato a superare il massimale previsto, fiducioso che qualcun altro soggetto avrebbe pagato questo comportamento opportunistico. Ciò ha generato un effetto narcotizzante sulle imprese, in parte dovuto ad una corretta analisi e pubblicizzazione del problema nel mondo zootecnico (5); infatti, le imprese hanno cercato di migliorare la loro produzione incrementandola, quantitativamente e non qualitativamente, non essendoci dei segnali punitivi certi, ed effettuando degli investimenti necessari per incrementare la produzione; questi investimenti, successivamente, si sono dimostrati doppiamente vani perché, da un lato, sono stati la causa dell’applicazione delle multe e dall’altro lato hanno penalizzato il mondo agricolo perché hanno sottratto denaro pubblico, non più destinabile a finanziare e pagare degli interventi di miglioramento aziendale nel settore primario, ma da utilizzare per rifondere all’Unione europea i soldi anticipati dall’Italia per coprire il superprelievo (partita di giro ad effetto passivo).
Il sostegno al mercato e ai consumi interni prevedeva, nelle more del regolamento istitutivo delle quote latte, degli interventi sul burro e sul latte scremato in polvere, interventi su alcuni formaggi (Grana Padano e Parmigiano, intervento sospeso nel 1994), aiuti allo stoccaggio privato, allo smaltimento e al consumo. Con il documento Agenda 2000 e con le successive proposte di regolamento la Commissione ha però preso atto della necessità di iniziare un processo di riforma per questo comparto, esprimendo le linee generali attorno alle quali tale processo si dovrà sviluppare e che sono compendiate in una serie di regolamenti emessi alla fine del ventesimo secolo.
Nel 1999 il Consiglio dei Ministri agricoli europei emette il Regolamento CE 1255 avente lo scopo di riorganizzare il funzionamento dell’Organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari da applicare ai seguenti prodotti: i) burro, burro concentrato e crema; ii) latte scremato e latte scremato in polvere; iii) formaggi a lunga stagionatura, prevedendo un coinvolgimento attivo delle regioni e alcune misure di intervento costituite da ammassi privati e da ammassi pubblici. In questo caso viene concesso un aiuto comunitario, quantificato per peso di prodotto e per periodo di tempo di detenzione, ad operatori aderenti all’UE, che stoccano per un certo periodo di tempo, presso propri magazzini, un prodotto di loro proprietà, tra quelli previsti nel regolamento e rispondenti a precisi requisiti qualitativi, e si sottopongano, inoltre, ai necessari controlli previsti dalla normativa. Per gli ammassi pubblici è previsto che un quantitativo determinato di uno dei prodotti considerati (burro, formaggio, latte) rispondente a precisi requisiti qualitativi, venga acquistato sul mercato, mediante gara oppure mediante un prezzo prefissato, dall’Organismo pagatore nazionale (Agea ex Aima) che quindi lo deteneva presso le proprie strutture (scorte di intervento) per un certo periodo. Le misure previste per lo smaltimento prevedono che vengano venduti a prezzo ridotto prodotti provenienti dalle scorte di intervento giacenti presso i magazzini dell’Organismo pagatore nazionale (Agea), oppure viene concesso un aiuto per la produzione, ovvero un aiuto per l´acquisto dei prodotti, ad operatori (Enti o Istituti senza scopo di lucro qualora presenti) che si sottopongano ai controlli e rispettino gli obblighi previsti. Elementi indispensabili e determinanti per il conseguimento dell’aiuto sono l’utilizzazione del prodotto per lo scopo specifico previsto, nonché il rispetto dei tempi di utilizzo indicati dalla normativa.
La proposta elaborata negli anni novanta dalla Commissione Europea per riformare l’OCM latte si articola in delle modifiche da apportare all’assetto attuale che inizialmente avrebbero dovuto essere introdotte nell’anno 2000 e terminare nell’anno 2006 mentre, in sede di delibere finali, si è deciso di applicarle a partire dalla campagna 2005-2006, prevedendo un periodo di transizione di tre anni per l’entrata a regime del provvedimento, esteso fino al 2008. Deriva da questo che i contenuti della riforma dell’OCM, pur entrando in vigore nell’anno 2000, al pari degli altri interventi previsti nel pacchetto Agenda 2000, diventeranno operativi soltanto a partire dalla campagna lattiero-casearia 2005-2006.
Le modifiche che saranno introdotte possono essere così riassunte:
a) riduzione dei prezzi istituzionali in misura pari al 17% del prezzo indicativo per il latte e del 15% del prezzo di intervento per burro e latte scremato in polvere;
b) introduzione di un sistema di pagamenti diretti ai produttori, di cui una parte da assegnare ai produttori in ragione della loro quota e una parte gestita dai singoli Stati membri all’interno di portafogli finanziari determinati. E’ da ricordare, comunque che due misure dovrebbero essere a carico dell’OCM latte e due a carico dell’OCM carni bovine. Facendo ciò, tuttavia, l’onere del sostegno si trasferirebbe dai consumatori (riduzione dei prezzi) ai contribuenti e quindi al bilancio pubblico;
c) graduale aumento delle quote nazionali di produzione che sono state incrementate per l’Italia a partire dall’annualità 2000.
Con Agenda 2000, durante l’attesa che entri in vigore la riforma, il regime delle quote viene prorogato per altre otto campagne, quindi fino al 2008 anche se dal 2013 molti Stati membri, tra cui l’Italia e la Polonia, prevedono la eliminazione del regime delle quote latte. L’Italia, comunque, ha potuto beneficiare di alcuni risvolti positivi che hanno portato ad un incremento dei QGG, non di tipo lineare come, invece, previsto per gli altri Stati membri che saranno beneficiari di un incremento della quota nazionale pari ad un +1,5% da effettuarsi in tre campagne a partire dalla campagna 2005-2006. L’incremento specifico di alcuni QGG sono stati giustificati con la necessità di porre rimedio ad alcuni problemi di carattere strutturale negli Stati membri appositamente indicati; la quota comunitaria dovrebbe incrementare di circa 1,4 milioni di tonnellate e di altrettante nel 2008 in seguito all’incremento lineare di cui si è detto. Per le aziende zootecniche italiane l’aumento del QGG appare come un pannicello caldo che non potrà coprire, come da molti auspicato, lo splafonamento (6) dei produttori, andando a premiare le aziende del nord Italia assegnando alle regione il potere di regolamentare tale materia. Secondo me, tale intervento non spingerà le imprese ad effettuare un’analisi al proprio interno delle criticità che le caratterizzano, necessarie da porre a soluzione, al fine di garantire un riallineamento delle quote produttive su quella che dovrebbe essere la produzione effettiva aziendale, con un meccanismo di riassegnazione e ricollocazione delle quote non utilizzate al fine di riequilibrare la produzione nelle aziende in esubero.
3. Proposte operative, critiche e questioni aperte
Un criterio valido per la riattribuzione delle quote dovrebbe tenere in considerazione il processo storico della produzione aziendale, al fine di eliminare eventuali comportamenti opportunistici, e di un’analisi SWOT (7)dell’azienda e della sua redditività, mediante l’utilizzo di strumenti ad hoc quali il business plan e una attestazione della rischiosità dell’impresa, cercando di valutare se l’incremento della produzione per un’azienda zootecnica efficiente possa generare delle ricadute economicamente positive oppure possa aggravare la propria posizione produttiva. Ovviamente, un primo limite nell’applicazione di questi strumenti è rappresentato dalla difficoltà, soprattutto per alcune piccole imprese agricole, di avere un sistema di contabilità ben strutturato e dalla presenza di aziende condotte da giovani che, non avendo una propria quota produttiva, vogliano cimentarsi nella produzione lattiero-casearia.
Le Regioni, nell’attribuire le quote, non dovranno seguire soltanto criteri volti al consolidamento delle produzioni in esubero, ma dovranno anche tener conto della richiesta di tutelare particolari territori (zone di montagna e svantaggiate) che necessitano del mantenimento di attività zootecniche locali e dell’esigenza di salvaguardare le quote nelle aree all’interno delle quali si ottengono produzioni casearie tipiche, suscettibili di sviluppo per la qualificazione di prodotti tipici, evitando, conseguentemente, la marginalizzazione delle aree rurali (spopolamento) in una prospettiva di multifunzionalità e di presidio del territorio fortemente voluto dalla Commissione europea. La tutela delle produzioni tipiche, infatti, imporrebbe, necessariamente, una moratoria e una deroga al regime delle quote latte purchè in ogni consorzio venga definito un plafond produttivo che vada in deroga al regime del contingentamento. Tale proposta, tuttavia, non credo possa trovare un favorevole accoglimento da parte delle autorità antitrust italiane, le quali già sono intervenute definendo non praticabili tutte quelle strategie finalizzate a mettere in atto delle misure di contenimento e regolazione della produzione a tutela dei soci consorziati di prodotti Dop, al fine di evitare eccessive oscillazioni, in negativo, nei prezzi.
Un elemento per regolamentare mediante l’imposizione di quote nel settore lattiero caseario dovrebbe basarsi, prevalentemente, su degli aspetti che indirettamente siano legati sia alla produzione che ad un meccanismo capace di premiare gli interventi di presidio ambientale e di salvaguardia territoriale. Mi rendo conto che se si vuole favorire la sostenibilità ambientale, a senso unico, una proposta, provocatoria, potrebbe essere alquanto restrittiva: portare ad una definizione e attribuzione delle quote non più sulla base della produzione di latte ma sulla vulnerabilità delle zone, funzione di alcuni parametri quali: i) carico inquinante espresso in unità di azoto; ii) possibilità concrete aziendali di smaltimento dei reflui zootecnici; iii) possibilità reale di smaltimento dei reflui e dei sottoprodotti lattiero-caseari. Un’interpretazione restrittiva, in questo caso, finirebbe per ridimensionare fortemente la produzione zootecnica intensiva italiana, più di quanto fatto dall’istituzione del regime delle quote, a tutto vantaggio per quelle aree produttive caratterizzate da allevamenti estensivi; pertanto, le conseguenze sul mercato potranno essere fortemente negative con la comparsa di una accentuata dicotomia tra aree marginali, nelle quali potrebbero esistere le condizioni per una bovinicoltura da latte in fase di rilancio e le aree di pianura a rischio abbandono della zootecnia e dei sistemi colturali e produttivi in atto con un conseguente disequilibrio socio-economico-ambientale. Estendendo l’analisi a tutti i Paesi dell’Unione europea si avrebbe un ritorno al passato con i conseguenti problemi di mancato raggiungimento dell’autosufficienza alimentare (8).
Il regime delle quote latte ha consentito la creazione di un ambiente iperprotetto per le imprese zootecniche europee, le quali hanno trovato una barriera semipermeabile, che ha consentito di non affrontare, se non in modo artefatto, la sfida con i paesi esteri nei quali non esistono sovvenzioni di alcuna sorta per la produzione agricola (Nuova Zelanda e paesi aderenti al gruppo di Cairns). Tutto ciò ha avvantaggiato, in maniera particolare, le imprese italiane, le quali hanno potuto godere di un aiuto indiretto che le ha parzialmente protette dalla concorrenza internazionale. Infatti, i costi energetici e il costo del lavoro, e di altre voci di spesa connesse ad altri fattori di contorno al processo produttivo, capaci di generare una viscosità nei flussi e nelle attività commerciali (costi del trasporto, margini distributivi elevati, mantenimento della catena del freddo, ecc.), sono due voci principali che, da sempre, hanno inciso, in maniera negativa sui costi di produzione del latte alla stalla. Pertanto, le imprese agricole hanno potuto commercializzare i loro prodotti nei mercati con dei prezzi superiori al valore medio mondiale. L’abbattimento del regime delle quote e le “protezioni” all’importazione finirebbero per estromettere le imprese meno competitive incapaci di generare delle economie di scala, rispondenti alle strategie di competitività. Da ciò ne emerge una prima osservazione di fondo ossia: l’eliminazione del regime delle quote latte finirà, da un lato, per accentuare l’abbandono della zootecnia da latte, con una conseguente accentuazione del declino nel settore primario e, dall’altro, garantire alle imprese più efficienti di rimare sul mercato, confrontandosi con le altre realtà internazionali. In maniera indiretta, tuttavia, le aziende zootecniche che allevano bovini per la produzione della carne potrebbero trovarsi in seria difficoltà per la mancanza della materia prima, rappresentata dai vitelli, accentuando la dipendenza dall’estero per l’importazione di animali da ingrassare e per i livelli di autosufficienza alimentare, sia nel settore della carne che del latte, con severi problemi par alcune aree zootecniche del nord Italia (Veneto, Piemonte e Emilia Romagna).
Del problema dell’aumento delle quote latte e della liberalizzazione della produzione, oramai, la stampa specializzata riempie pagine e pagine, inquadrando il problema solo in una prospettiva di incremento della produzione associata ad un calo di prezzo, e spronando i policy maker ad attuare delle strategie di intervento che puntino su interventi a “piccoli passi” e sulla vulnerabilità del settore agro-zootecnico nazionale nel suo complesso, senza tener conto delle differenze territoriali che esistono tra le varie aree e regioni del paese. Un’impresa del nord Italia, con una produzione consolidata, potrà certamente, se in grado di avere un processo produttivo innovativo, affrontare la sfida di una produzione senza quote ma un’impresa collocata nelle aree meridionali o che si collochi in areali di media o alta collina, a rischio marginalizzazione, riuscirà ad affrontare questa sfida? Personalmente ho delle forti titubanze in proposito suffragate da una scarsa capacità di aggregare l’offerta nel settore lattiero-caseario e di confrontarsi, apertamente, con il mercato libero e non con il libero mercato. Inoltre, chi non ci assicura che una mancanza di “barriere” non spinga i grossi produttori di latte a produrre ancora di più con un conseguente peggioramento dell’ambiente? Ciò farebbe venire meno il vantaggio ecosostenibile proposto dai fautori di un’eliminazione del regime delle quote latte. Inoltre, una produzione senza quota è propabile che avvantaggi i consorzi che producono prodotti di qualità certificata? Se non esistono più quote o il consorzio di tutela delle produzioni Dop interviene, stabilendo dei vincoli di produzione, fatte salve che le autorità antitrust acconsentano ciò, o altrimenti si produrrà di più con delle difficoltà oggettive nella vendita e nella remunerazione dei consorziati, generando un abbandono della produzione non considerata più economicamente redditizia.
Chi potrebbe giovarsi dall’abolizione delle quote latte? Una risposta univoca non è facile da dare; tuttavia, è possibile ritenere che le imprese di trasformazione e di distribuzione potranno vedere calare il prezzo della loro materia prima e potranno scegliere di importare liberamente il latte da paesi, anche extra europei, dove i prezzi di produzione sono di gran lunga inferiori, anche se alcuni dati recenti sembrano evidenziare un incremento del prezzo mondiale del latte, il che potrebbe fare ben sperare le imprese europee, anche se il rapporto euro/dollaro, molto forte in questi ultimi anni, potrebbe svantaggiare le esportazioni per i Paesi membri dell’Ue.
Da parte dei policy maker europei ci si sarebbe auspicata qualche proposta più organica, originale e fattiva all’interno del Regolamento CE 1234/2007 con il quale è stato creato un compendio unico per tutte le OCM; infatti, una disamina dei considerando, a premessa del regolamento, ha evidenziato un richiamo al regime delle quote senza che si facciano delle proposte concrete e operative per il prosieguo del sostegno dei prezzi. I considerando più interessanti nella premessa del Regolamento 1234/2007 sono stati solo tre nei quali si è ribadita l’importanza del prezzo di sostegno quale elemento capace di incrementare i consumi di latte nell’Unione europea, senza però menzionare gli effetti distorsivi generati, perché mal gestiti; infatti, oltre alla menzione degli effetti distorsivi il legislatore non fa alcuna menzione a cosa potrà accadere dopo il 2015 e quali scenari si potranno prefigurarsi per le imprese zootecniche.
Nel mese di novembre scorso, inoltre, la Commissione europea ha prodotto un proprio documento di comunicazione al Parlamento e al Consiglio per la valutazione dello stato di salute della Pac, dalla quale è emersa la necessità di continuare sulla strada del pagamento disaccoppiato, quale leva finanziaria per valorizzare le esternalità positive dell’attività agricola sullo spazio rurale e sull’ambiente tal quale, puntando sul rafforzamento del secondo pilastro. Il problema delle quote latte viene affrontato con un titolo interlocutorio “Prepararsi all’estinzione graduale del regime delle quote latte” che sembra non lasciare spazio ad alcun atterraggio morbido, appena accennato nelle sue linee generali. Infatti, nelle prime tre righe la Commissione sconfessa il Consiglio contraddicendo i considerando del Regolamento 1234/2007 con una frase sibillina, secondo la quale “emerge con evidenza una conclusione generale: i motivi che hanno giustificato l’introduzione delle quote latte nell’UE non sono più validi”, accorgendosi con diversi anni di ritardo di come sono risultati fallimentari tutti i modi e tutti i mezzi legislativi e dissuasivi per contenere e arginare gli eccessi produttivi.
La giustificazione dell’abolizione delle quote latte viene individuata nella maggiore richiesta di prodotti di qualità che certamente non troverebbero un eccessivo giovamento dall’eliminazione delle quote, salvo poi prevedere delle forme di autoregolamentazione dell’offerta che non sembrano, al momento, proponibili visto gli interventi energici proposti.
4. Conclusioni
Il regime delle quote ha approfondito la iattura tra il settore lattiero-caseario e gli altri comparti agricoli riformati, i quali hanno potuto beneficiare di aiuti disaccoppiati alla produzione senza limitazioni apparenti nelle produzioni ottenibili; ciò potrà essere un elemento di forte ostacolo per i produttori più intraprendenti di avvalersi di nuove opportunità, mentre i produttori meno efficienti nelle zone svantaggiate, soprattutto di montagna, saranno alle prese con enormi difficoltà dovute al crollo dei prezzi in seguito alla brusca scomparsa delle quote, il che sembra essere una presa di coscienza aberrante, ma tardiva e di compromesso tra il voler concedere un incentivo ad aumentare la produzione per migliorare l’efficienza aziendale e, all’opposto, generare un processo di abbandono delle attività agro-zootecniche per alcune aree a rischio marginalizzazione, cui il II pilastro della Politica agricola comunitaria dovrà intervenire in suo soccorso e sostegno, ma avendo a disposizione risorse limitate. Ma un interrogativo di fondo rimane ossia come e con quali strumenti, si dovrà intervenire se in queste aree si vuole puntare alla multifunzionalità e alle imprese multiprodotto? Inoltre, se si considera come nelle aree pedemontane dell’Appennino e nelle aree montane e prealpine si producono la maggior parte dei formaggi Dop, l’eliminazione delle quote vorrebbe dire favorire l’abbandono e la scomparsa di queste produzione. Proporre un atterraggio morbido sembra una proposta disagevole e inopportuna se non accompagnata da alcune indicazioni specifiche o azioni di intervento da calibrare, fin da ora, e non in prossimità della scadenza del regime delle quote latte nel 2015. Tuttavia, nelle misure a favore delle regioni montane viene evidenziata una difficoltà a mantenere un livello di produzione minimale cui intervenire con politiche finalizzate ad accrescere il valore aggiunto dei prodotti lattiero-caseari, di concerto con le politiche di sviluppo rurale, o con interventi di sostegno specifici calibrarti sulle esigenze differenti esistenti nelle diverse regioni. Una domanda di fondo parzialmente insoluta, comunque, rimane ossia non sarebbe opportuno assegnare dei sostegni ed incentivi per limitare gli eccessi produttivi (politica incentivante), come avvenuto per un’altra produzione contingentata quale la barbabietola, anziché applicare un regime sanzionatorio che richiede ingenti spese per la sua applicazione e gestione.
Note
(1) – Da osservare come con il Trattato di Roma fu istituita la CEE (Comunità economica europea) ossia un’area di libero scambio della prevista durata di cinquant’anni che ha cessato di esistere, sostituita dall’Unione europea, nel mese di luglio 2002 insieme alla CECA (Comunità economica carbone e acciaio) e all’Euratom.
(2) – La strategia politica adottata fu quella di fissare dei prezzi dei prodotti agricoli superiore a quelli mondiali in maniera tale da assicurare un livello di reddito significativo per le imprese agricole, spronandoli a produrre di più. Nel lungo periodo, tuttavia, tale strategia si dimostrò inefficace perché capace di generare eccedenze produttive, elevati costi economici nella gestione della politica e scaricando, indirettamente, sul consumatore i maggiori livelli di prezzo.
(3) – PAC è l’acronimo di Politica Agricola Comune.
(4) – Feoga è l’acronimo di Fondo europeo di orientamento e garanzia del settore agricolo e si suddivide in due sezioni la sezione garanzia, che ha l’obiettivo di intervenire sulle politiche di sostegno al reddito mediante la leva dei prezzi e la sezione garanzia che agisce sulle politiche “strutturali”, tese a migliorare la capacità operativa delle imprese.
(5) – Molti imprenditori, infatti, non avendo ben capito come affrontare questa sfida produttiva con l’applicazione di contingentamenti produttivi, hanno cercato di regolarizzare tardivamente la loro produzione, andando soggette in seguito all’applicazione di multe e sanzioni di vario genere, il tutto parzialmente imputabile ad una informazione non completamente condivisa e divulgata chiaramente tra tutti i soggetti della filiera.
(6) – Termine con il quale si designa il superamento della quota assegnata a ciascuna azienda.
(7) – L’analisi SWOT è un’analisi che prende in considerazione i punti di forza di debolezza le opportunità e le minacce.
(8) – Ad onor del vero, il differenziale produttivo italiano rispetto a quello olandese e tedesco è molto forte; infatti, se il tasso di autoapprovvigionamento dell’Olanda e della Germania è superiore al 200% e al 100%, l’Italia si colloca a dei valori di autosufficienza prossimi al 60%, il che spiegherebbe i flussi di importazione del latte e suoi derivati dai mercati del nord-Europa a quelli dei paesi del bacino del Mediterraneo. Un “ritorno al passato” potrebbe, quindi, non essere visto come una criticità ma come un meccanismo riequilibratore e redistributore della produzione non equamente distribuita tra i diversi Paesi membri.
Nicola Galluzzo si è laureato in Scienze agrarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, conseguendo il perfezionamento in Economia del turismo e in Gestione e organizzazione territoriale delle risorse naturali presso l’Università La Sapienza di Roma, in Studi europei presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova. Assegnista di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (Inea). Attualmente è dottorando di ricerca in Scienze degli Alimenti presso il Dipartimento di Scienze degli Alimenti Unità operativa in economia agro-alimentare della Facoltà di Agraria di Teramo.
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