Imprese agro-alimentari italiane e distribuzione
Analisi delle criticità e prospettive
di Nicola Galluzzo
1. Introduzione
Nel corso del XX secolo l’economia italiana ha attraversato una fase di rapidissimo cambiamento che ha portato l’Italia a collocarsi tra i paesi con i maggiori livelli di industrializzazione e sviluppo cui, purtroppo, si sono associate una serie di criticità e viscosità sociologiche di grande importanza ma molto spesso sottovalutate nelle analisi economiche. A questi repentini cambiamenti, soprattutto negli stili di vita dei consumatori, si è associata una rapidissima trasformazione del settore primario, il quale ha raggiunto dei livelli di complessificazione e di interazione alquanto significativi e che hanno contribuito a incrementare la marginalizzazione socio-economica delle imprese agricole a vantaggio delle imprese a valle della filiera agro-alimentare, costituite dalle imprese di trasformazione e dalle imprese della distribuzione.
Il settore distributivo italiano, in questi ultimi anni, ha visto la chiusura di numerose strutture commerciali di piccole dimensioni costituite dai negozi di prossimità, che sono stati sostituiti da strutture facenti parte della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale risulta essere, prevalentemente, in mano a grandi colossi stranieri, che hanno effettuato un imponente sforzo di acquisizione di molte imprese della GDO mediante investimenti diretti all’estero (IDE). La riduzione del numero degli esercizi attivi, tuttavia, non è stata nient’altro che la diretta conseguenza di una politica che dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta ha consentito il rilascio di un numero eccessivo di licenze commerciali, rispetto a quanto avvenuto in altri paesi europei, associato ad una dimensione media per punto vendita inferiore ai 100 metri quadrati e da una scarsa diffusione delle superfici a selfservice (Scarpellini, 2007). In Italia subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale si è assistito all’affermazione di alcune strutture distributive sulle quali hanno, comunque, apportato un significativo e consistente contributo nell’avvio alcuni imprese americane, con una solida esperienza nel settore grocery.
Al momento attuale, sembra che si possano, parzialmente, accettare le ipotesi presentate negli anni novanta da alcuni ricercatori italiani secondo i quali il sistema agro-alimentare si è caratterizzato per la presenza di molteplici imprese della distribuzione a carattere monopolistico, che hanno risentito della loro collocazione spaziale in quanto capaci di offrire dei livelli di specializzazione, non solo dimensionali, elevati funzione della loro localizzazione nel/sul territorio e delle strategie non-price messe in atto (Venturini, 1995).
2. Il ruolo della Grande Distribuzione Organizzata in Italia
Dati recenti dimostrano come la GDO sia capace di rappresentare oltre il 50% delle vendite del settore grocery con significativi incrementi annuali, soprattutto attraverso i prodotti private label, abbastanza interessanti e che sembrano andare a discapito del dettaglio tradizionale, il quale non è individuato più dal consumatore quale struttura capace di garantire un rapporto di fiducia, comfort e di amicalità, ossia di garantire tutta una serie di elementi che sono interessanti nella fase di elaborazione del processo di acquisto definito da Malow (Rosa, 2001).
Negli anni novanta, allorché in Italia i termini di globalizzazione e di integrazioni tra le aziende distributive, apparivano alquanto lontani, alcuni studiosi già evidenziavano le debolezze del sistema distributivo italiano, i suoi cambiamenti e le possibili soluzioni da mettere in atto. I cambiamenti che il settore distributivo si trova ad affrontar sono numerosi ma per brevità possono essere così riassunti (Venturini, 1995):
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concentrazione tra le imprese del settore distributivo ed, estensivamente, anche per le imprese agricole, mediante la realizzazione di accordi di filiera e interprofessionali capaci di generare un’offerta economicamente significativa e capace di contrastare le economie monetarie e il buyng power della GDO. Le imprese agricole, tuttavia, dovranno intervenire mediante strategie di processo e di prodotto che possano aumentare l’innovazione aziendale al fine di essere maggiormente competitive. Le imprese della GDO avrebbero dovuto, alla luce delle recenti acquisizioni da parte dei colossi francesi e tedeschi, realizzare delle piattaforme logistiche capaci di ridurre i costi di magazzinaggio e di trasporto;
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competizione inter-tipo, che caratterizza i rapporti tra i colossi della GDO, si è esplicitata mediante processi di acquisizione di quote di mercato da parte dei competitors, che aumentando le strategie di differenziazione dei prodotti e di posizionamento del prezzo, servizio e qualità, hanno causato la fuoriuscita delle imprese meno competitive e di quelle di piccole dimensioni (superette, dettaglio tradizionale, negozio di prossimità);
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diffusione dei discount, la cui strategia si basa sulla rapida rotazione delle referenze e su politiche commerciali di contenimento dei costi presso il punto vendita;
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terze marche, ossia marche che si collocano dietro le marche leader, con limitati livelli di fedeltà ma con prezzi alla vendita inferiori rispetto ai prodotti private label;
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spostamento del potere contrattuale a scapito del margine dei produttori.
La realizzazione di strategie monetarie, in contemporanea con l’applicazione di strategie non price, ha finito per penalizzare prevalentemente gli operatori agricoli e le imprese della GDO, con un’accentuazione delle criticità che hanno permesso a delle imprese estere, francesi e tedesche nello specifico, (anche se nel futuro ormai prossimo ci sarà da aspettarsi qualche “sortita” da parte dei colossi della distribuzione statunitense) di effettuare ampie acquisizioni dei pacchetti azionari delle imprese della GDO italiane e, delle imprese agroalimentari, come ad esempio avvenuto nel settore olivicolo da parte di società spagnole, le quali, mediante acquisizione del pacchetto azionario di maggioranza, hanno preso il controllo di alcune marche consolidate nella produzione di olio italiano, aventi un significativo posizionamento nel segmento della Grande Distribuzione Organizzata e del dettaglio tradizionale. A tal fine, sarebbe opportuno per i due attori italiani nella GDO, ancora in mano ad imprenditori e a soci italiani, al fine di non vedere perdere ulteriormente le loro quote di mercato, in una prospettiva di competizione inter-tipo, attuare delle strategie collaborative, sia nella fase logistica sia nella fase di approvvigionamento presso le imprese agricole italiane, aumentando, ad esempio, i punti vendita al di fuori dei confini nazionali e valorizzando le eccellenze agricole italiane.
Nel sistema agro-alimentare italiano è possibile trovare una dicotomia tra le imprese operanti: se da un lato prevalgono le grandi imprese strutturatesi in distretti industriali, sui quali il legislatore è intervenuto con appositi provvedimenti finalizzati al loro riconoscimento, Decreto legislativo 228/2001 (Galluzzo, 2006), e a renderli adatti a sopportare le sfide attuali, dall’altro si contrappongono imprese di piccole dimensioni, capaci di occupare posizioni interstiziali (Bellia, 1995). Le piccole imprese, sia agricolo che agro-alimentari, dovranno essere rispondenti alle nuove sfide e sollecitazioni commerciali, tecnologiche e del consumatore, attuando delle strategie tese a realizzare una maggiore integrazione sia verticale, con la Grande Distribuzione Organizzata, che orizzontale tra le imprese che operano in un determinato contesto produttivo cercando di favorire le produzioni locali mediterranee, le quali presentano un’elevata qualità intrinseca e percepita ma che non sono capaci, autonomamente, di inserirsi in circuiti commerciali consolidati, cui la GDO potrebbe svolgere un ruolo guida e di marketing interessante (Prestamburgo, 1997) anche oltre i confini nazionali per quelle catene distributive nate e attive in Italia ma, ora, inglobate in strutture a carattere e dimensione transnazionale.
3. Le forme di integrazione verticale lungo la filiera: alcune implicazioni
La filiera agro-alimentare italiana si colloca in una posizione definita da alcuni studiosi di concorrenza disintegrata, poiché risulta avere un ambito di azione limitato spazialmente e un ridotto servizio aggiuntivo offerto, il che fa si che si sviluppino dei contratti di integrazione, lungo la filiera, di breve periodo, in grado di risentire negativamente di effetti congiunturali provenienti, sia dal mercato nazionale sia dal mercato internazionale (Sodano comunicazione personale). In Italia un esiguo numero di aziende agroalimentari internazionalizzatesi ha saputo abbandonare questo stadio primordiale per raggiungere fasi successive, con l’affermazione di una struttura aziendale basata sulla esternalizzazione di alcuni processi produttivi e sul just in time; la stragrande maggioranza delle aziende agroalimentari italiane, purtroppo, si colloca ancora in un’area di marginalizzazione, all’interno della quale non esiste una fase significativa e rapida di ricerca e sviluppo e un marketing internazionale adeguato e ripensato alle sollecitazioni provenienti dalla globalizzazione.
Nella filiera agroalimentare italiana, nello specifico tra le imprese agroindustriali e la distribuzione, si sta affermando una fase di tipo monopolistico-integrata con l’affermazione di fusioni e acquisizioni abbastanza significative da parte di gruppi esteri, il che comporta una perdita nello sforzo collaborativo messo in atto dagli attori coinvolti nella competizione verticale lungo la filiera. Tutto ciò ha contribuito a sfavorire le imprese agricole a monte della filiera e favorire le imprese a valle, che hanno dato origine ad un monopolio-monopsonio (monopolio bilaterale) capace di generare delle inefficienze nella filiera e dei fallimenti di mercato a svantaggio del consumatore e dell’impresa agricola tal quale.
Il modello di integrazione verticale e, nello specifico, il modello bilaterale, proposto da Grossman e Helpman nel 2002, applicato nelle ipotesi di base ad un’economia chiusa, con due soli fattori produttivi e caratterizzata da due settori differenziati, ha evidenziato come il grado di partecipazione del produttore finale agli investimenti effettuati dal fornitore è correlato in maniera inversa al potere contrattuale del fornitore stesso; in parole povere, se il fornitore defeziona dagli impegni previsti, perché in possesso di un potere maggiore, il produttore finirà per avere meno bene intermedio da vendere, collocandosi, di conseguenza, in una posizione di subalternità. Antras nel 2003 ha proposto, invece, un’estensione del modello di Grossman e Helpman applicata ad un’economia aperta individuando come ogni industria definisca quanto del proprio processo produttivo esternalizzare verso strutture esterne all’impresa e sul quale svolgere funzioni di controllo più o meno palesi e direttamente e/o indirettamente controllabili.
Allorché tra industria alimentare e GDO s’instaurano delle relazioni verticali, molto stringenti e vincolanti tra le parti, si ha un potere maggiore esercitabile dal settore distributivo verso gli altri attori della filiera, eliminando gli effetti positivi del controbilanciamento. A titolo di esempio, basta considerare come gli hard discount hanno rappresentato, per il livello di servizio offerto, una svolta significativa nella GDO, a vantaggio di strutture commerciali consolidate, poiché sono stati capaci di aumentare il gap differenziale tra hard discount e supermercato tradizionale, con un calo del potere di controbilanciamento e un calo dei prezzi; infatti, l’hard discount, offrendo dei prezzi più bassi, ha agito, influenzandole, sulle altre imprese della distribuzione, le quali hanno fatto calare i loro prezzi di vendita affrancandosi, in tal modo, dal potere contrattuale delle imprese a monte dominanti che, per offrire dei prodotti competitivi per il prezzo, sono state costrette ad abbassare ulteriormente i loro livelli di prezzo, squilibrando la filiera e aumentando il potere verso l’impresa distributrice a scapito delle imprese fornitrici a monte.
4. Aggregazioni tra imprese nel dettaglio: effetti pratici
Un’impresa monopsonistica può vedere ridotto il suo potere di controbilanciamento nel momento in cui si interfaccia con un settore industriale a monte costituito da imprese oligopolistiche a frange; in questo caso la Grande Distribuzione Organizzata potrebbe, se opportunamente concentrata, attuare delle strategie penalizzanti nei confronti delle imprese fornitrici (riduzione della numerosità dei fornitori o fissazione di standard stringenti e vincolanti da rispettare nei rapporti di fornitura). L’aggregazione a livello del dettaglio potrebbe spingere le imprese fornitrici ad anticipare un’eventuale defezione nella scelta effettuata dalle imprese a valle, offrendo prodotti meno differenziati; tutto ciò comporterà minori profitti per le imprese del dettaglio con riduzione del benessere dei consumatori, i quali avranno meno scelta nell’acquisto, un calo di prezzo, che si ripercuoterà esclusivamente sulle imprese del dettaglio e negativamente sui fornitori, ma non sui consumatori (Inderst e Shaffer, 2004). Un’aggregazione dei dettaglianti, sotto ipotesi molto limitanti nelle funzioni di costo, se è in grado di ridurre i profitti per i fornitori, può anche spingere questi ultimi ad attuare strategie di innovazione del processo e del prodotto al fine di aumentare i loro margini di guadagni, con dei vantaggi economici per tutti gli attori della filiera e sui consumatori.
Le industrie alimentari hanno attuato in Italia delle strategie finalizzate ad aumentare il loro livello di concentrazione a tutto svantaggio degli attori a monte e a valle; per prodotti poco differenziati e verso le imprese agricole, le industrie di trasformazione hanno originato un monopolio bilaterale, finalizzato a concentrare l’offerta, generando un’asimmetria informativa verso la controparte più debole costituita da imprese agricole e/o impresa fornitrice di prodotti con bassa differenziabilità. In questi casi la presenza di altri intermediari ha finito per danneggiare la controparte agricola in posizione non dominante a vantaggio delle imprese dominanti, ragion per cui sarebbe auspicabile ridurre le intermediazioni lungo la filiera azienda agricola-industria o azienda agricola-distribuzione. Il caso più eclatante è rappresentato dall’ortofrutta; basti pensare ai numerosi casi che vengono alla ribalta sui mass-media dai quali emerge come l’impresa agricola sia accusata di causare aumenti nei prezzi senza, tuttavia, vedere remunerati i costi di produzione con pagamenti irrisori per le derrate agricole fornite alla GDO, e la distribuzione, invece, incrementare i propri profitti vendendo a prezzi superiori, i quali, non sempre, possono essere ascrivibili come compenso per le varie fasi di intermediazione. A mano a mano che aumenta la differenziabilità e la specificità dei prodotti si ha un incremento del potere del monopolio bilaterale con una riduzione delle asimmetrie informative e una partecipazione ad alcune fasi della filiera, soprattutto nella fase della vendita al dettaglio, di strategie di marketing più partecipative durante le quali, sia i produttori di prodotti di nicchia e/o dotati di elevata specificità (marchi consolidati ed affermati sul consumatore mediante politiche di marketing specifiche e costose) sia gli attori della distribuzione (struttura indispensabile per la messa in commercio su larga scala o su ambiti territoriali definiti) partecipano insieme per migliorare i loro profitti. La collaborazione tra gli attori nel monopolio bilaterale serve per incrementare i profitti durante lo scambio per entrambi i soggetti; questi profitti sono scaricati sul consumatore finale e sulle imprese agricole. Qualora, invece, si riuscissero ad instaurare dei rapporti competitivi si osserverà come, necessariamente, l’attore che avrà una maggiore forza contrattuale e maggiori possibilità operative finirà per incrementare il proprio surplus a svantaggio del soggetto collocato nella filiera in una posizione di inferiorità (o informativa, o contrattuale, o normativa, o di costo).
In Europa, negli ultimi anni, si è osservata una notevole concentrazione che ha interessato le imprese della distribuzione, il che ha spinto le autorità antitrust nei diversi Paesi membri e la stesse autorità dell’Unione europea ad effettuare delle analisi approfondite del problema poiché, fenomeni aggregativi possono avere delle conseguenze negative in termini di qualità del prodotto offerto, di varietà disponibile per il consumatore e di innovazione del prodotto e/o del processo. Infatti, alcuni studi sembrano confermare un trade off tra fenomeni aggregativi, che interessano la fase del dettaglio e i livelli di ricerca e sviluppo messi in atto dai fornitori; analisi empiriche hanno, sostanzialmente, confermato una contrazione, sia delle imprese attive a monte del dettaglio distributivo sia degli investimenti, che tendono a contrarsi rappresentando un forte elemento di disincentivo per le imprese agro-alimentari. Le fusioni che si vengono a generare hanno il vantaggio di aumentare il potere di mercato ma, di converso, di peggiorare il livello di benessere sociale, diminuendo la qualità e quantità dell’offerta, la possibilità di scelta del consumatore verso prodotti di qualità e anche le abitudini di acquisto conseguenti. In base al modello neoclassico, se non vi fossero delle viscosità nella formazione del prezzo, il consumatore finale potrebbe trarne un notevole giovamento dall’aggregazione del dettaglio alimentare, con un incremento del surplus, anche a patto di dover sacrificare parte del suo potere di scelta, avendo a che fare con pochi prodotti (referenze) e con un limitato potere di opzione nella fase di scelta durante l’acquisto. Nei fornitori, invece, si viene a generare, come diretta conseguenza dell’aumento del potere competitivo, una maggiore “aggressività” che finisce per interessare e coinvolgere tutti i soggetti a monte del dettaglio. La GDO ha puntato molto sulle strategie di aggregazione per riuscire ad abbassare gli stock di prodotto, la loro gestione in magazzino ed i costi ad esso connessi (gestione resi, ecc.).
Nel modello proposto da Inderst e Shaffer nel 2004, finalizzato ad analizzare le aggregazioni nel dettaglio e le sue conseguenze, sono stati ipotizzati 2 fornitori e 2 dettaglianti operanti, in maniera indipendente e separata tra loro, che scambiano due beni con caratteristiche intrinseche specifiche dai quali ricavarne dei profitti ben definiti e facilmente ordinabili. L’unione dei dettaglianti è in grado di generare dei livelli di profitto maggiori, rispetto alla situazione nella quale i due dettaglianti che agiscono in maniera autonoma. Tutto ciò consente di ridurre i profitti, nei confronti delle imprese fornitrici, il che comporta una riduzione delle spese di immagazzinamento e gestione del magazzino poiché si potrà offrire un unico prodotto su due mercati diversi agendo esclusivamente sullo shelf space del dettagliante; estremizzando l’analisi si potrebbe osservare come nel momento in cui si avesse un solo ed unico prodotto offerto il profitto per il dettagliante sarebbe massimizzato. La contrattazione tra fornitore e dettagliante non avvantaggia quest’ultimo nel caso di mercati consolidati se il dettagliante ha un insufficiente potere di mercato e stimabile con un parametro b < ½ del surplus che s’intende realizzare. Il parametro b, da endogenizzare nel modello, è in grado di agire sul potere di mercato ed è, inoltre, capace di giustificare la limitatezza nella gamma di prodotti offerti dal fornitore. Inderst e Shaffer, a giustificazione della scelta dei dettaglianti di aggregarsi, riportano le implicazioni che derivano dalla sottoscrizione di contratti lineari, che prevedono una complessità nelle clausole riportate e nella loro applicazione e rispetto tra le parti contraenti, a tutto svantaggio del consumatore. Contratti efficienti hanno la possibilità di dare origine, durante la fase di aggregazione, ad una diversa (inferiore) disponibilità del prodotto e una ridotta specificità; l’applicazione, invece, di contratti lineari migliora il potere di mercato dei dettaglianti con un incremento del loro profitto e con la marginalizzazione dei fornitori, i quali, invece, aumentano il loro livello di competizione. L’aggregazione dei fornitori ha degli effetti positivi, oltre che sulla riduzione delle spese di immagazzinamento, anche sulle spese di trasporto; l’alleanza tra gli acquirenti (consumatori) non sortisce lo stesso effetto dell’unione dei dettaglianti perché non si riuscirebbe ad avere una completa tra le parti con alte possibilità di fallimento degli accordi e dei pagamenti conseguenti. I fornitori, seguendo la strategia tesa a creare un’unica politica di offerta perseguita dai dettaglianti aggregatisi tra loro, possono peggiorare la loro situazione di inferiorità generatasi, rendendo disponibili prodotti poco differenziati con perdite del profitto sensibili; inoltre, comunque i fornitori si sforzino di anticipare le mosse della GDO aggregata non riusciranno mai a imporsi garantendo dei vantaggi ai consumatori soprattutto nel momento in cui sono presenti non degli accordi efficienti tra le parti ma dei contratti lineari. L’aggregazione dei fornitori dipenderà dalla prevista offerta, che è la diretta conseguenza delle preferenze del consumatore, nei rispettivi mercati. Nei mercati a monte, non coperti da accordi tra i dettaglianti, sarà possibile per questi ultimi trarre dei benefici avendo un potere maggiore sui fornitori esercitato mediante accordi da stipulare direttamente con i fornitori con tutte le conseguenze sopradescritte (bassi livelli di benessere sociale e di quantità/qualità offerta); nei mercati a valle, invece, le conseguenze che si osserveranno, a seguito di fenomeni aggregativi nel dettaglio, potranno agire solo sulle strategie di prezzo.
5. Conclusioni
Le aggregazioni tra i dettaglianti hanno manifestato la loro debolezza e inefficacia economica per tutti i soggetti che in esso sono coinvolti, cui possono opporsi, efficacemente, degli accordi di aggregazione da parte delle industrie fornitrici.
L’analisi sin qui condotta ha conformato la bontà delle affermazioni circa la criticità e la limitatezza che i retailers italiani hanno nel contesto europeo e che, se non opportunamente corrette, mediante la sottoscrizione di alleanze specifiche, finiranno per avere delle conseguenze dirette sui consumatori italiani e sul settore distributivo tal quale, divenuto terra di conquista da parte di grandi gruppi della distribuzione commerciale estera. Nella bibliografia consultata, tuttavia, è stato possibile evidenziare un punto di debolezza molto forte costituito dalla mancata e debita considerazione delle imprese agricole, le quali, purtroppo, si collocano, ancora, in una situazione di forte debolezza nella filiera.
Le soluzione possibili per cercare di ridare all’impresa agricola il giusto ruolo e peso nel settore agro-alimentare possono essere individuate nella vendita diretta in azienda e nella valorizzazione delle specificità agro-alimentari di nicchia o, come estrema ratio, nell’applicazione di nuove tecnologie informatiche necessarie per accorciare la filiera e ridurre il potere di mercato e le posizioni di rendita alle strutture di intermediazione e di distribuzione attive.
Ringraziamenti
Un particolare ringraziamento va alla Professoressa Valeria Sodano della Facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli per i suggerimenti e le indicazioni bibliografiche proposte.
Bibliografia
Antras P., (2003), “Firms, contracts and trade structure”, The quartely journal of economics;
Bellia F., (1995), “Evoluzione e prospettive dell’industria agroalimentari nel Mezzogiorno”, Atti dei Georgofili, XLII serie settima, 171° dall’inizio, Nuova Stamperia Parenti, Firenze;
Galluzzo N., (2006), “I distretti nel Lazio: una proposta in divenire”, L’agrotecnico oggi, n11, XXII novembre pp. 28-31;
Inderst R., Shaffer G., (2004), “Retail mergers, buyer power and product variety”, Paper presented at NEI annual conference, Lacaster;
Prestamburgo S., (1997), “Alcune considerazioni conclusive sul ruolo della piccola e media impresa nel sistema agro-alimentare”, in Le dinamiche dell’agroindustria (a cura di Prestamburgo S., Rosa F.), Forum editrice, Udine;
Rosa F., (2001), “Motivazioni e comportamenti”, in Consumatore, alimenti e marketing: fra globalizzazione e culture locali (a cura di Rosa F. e Sillani S.), Forum editrice, Udine;
Scarpellini E., (2007), “La spesa è uguale per tutti. L’avventura dei supermercati in Italia”, Marsilio, Venezia;
Venturini L., (1995), “Il settore distributivo”, in Strategie e competitività nel sistema agro-alimentare. Il caso italiano (a cura di Pieri R. e Venturini L.), Francoangeli, Milano.
Nicola Galluzzo si è laureato in Scienze agrarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, conseguendo il perfezionamento in Economia del turismo e in Gestione e organizzazione territoriale delle risorse naturali presso l’Università La Sapienza di Roma, in Studi europei presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova. Assegnista di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (Inea). Attualmente è dottorando di ricerca in Scienze degli Alimenti presso il Dipartimento di Scienze degli Alimenti Unità operativa in economia agro-alimentare della Facoltà di Agraria di Teramo.