di Giuseppe Maria Fraddosio
E’ ancora alto, nel nostro paese, il numero delle razze e popolazioni di animali domestici autoctone di aree geografiche caratterizzate da peculiari connotazioni ambientali e da forti tradizioni allevatoriali.
Tale invidiabile patrimonio zootecnico – legato a particolari ecosistemi regionali – permette all’Italia di porsi alla testa di ogni iniziativa comunitaria europea tendente alla formulazione ed attuazione di programmi agroalimentari via via più adeguati alle nuove realtà socio-politiche ed economiche che vanno delineandosi sulla scena mondiale.
Davvero significativi sono stati i successi ottenuti, negli ultimi quattro lustri, da quegli allevatori italiani che hanno voluto e saputo ben sostenere la selezione zootecnica non soltanto con le più aggiornate cognizioni scientifiche (soprattutto chimico-biologiche, ecologiche, fisio-patologiche e terapeutiche) ma anche con i più recenti risultati delle indagini e degli studi storici (in prevalenza bibliografici, archivistici ed iconografici) utili alla ricostruzione delle tappe fondamentali nei processi di formazione delle varie etnie del bestiame domestico, sia in ambito di vita naturale, sia in dipendenza dall’uomo.
Il salvataggio di genotipi autoctoni locali poco tempo fa ritenuti assai prossimi all’estinzione consente al nostro paese di attivare sinergie progettuali ed operative fino a ieri impensabili.
Si profila così una grande sfida, nel terzo millennio: quella di riuscire a potenziare la zootecnia italiana soprattutto nelle sue molteplici e pregevoli componenti genetiche autoctone, attraverso il formale riconoscimento – anche nell’attribuzione del nome – della loro appartenenza a culture e tradizioni di allevamento profondamente radicate nel territorio.
In siffatta prospettiva, occorre assegnare ufficialmente a ciascuna razza o popolazione animale una denominazione che ne indichi chiaramente le caratteristiche morfologiche ed attitudinali nonché l’origine geografica, con riferimento – se possibile – al periodo storico in cui essa abbia raggiunto l’apice nella sua evoluzione e nella sua notorietà.
Di conseguenza, si rendono necessarie tempestive modifiche degli standards di alcune razze e popolazioni regionali e locali, per potere meglio tracciare i contorni storici e geografici entro i quali iscriverle, scongiurando in tale modo il rischio di equivoci derivanti da descrizioni approssimative, rese poco attendibili dalla scarsità o addirittura dall’assenza di valide fonti documentali.
Il caso più evidente di imprecisione terminologica riferita alle denominazioni di razze e popolazioni autoctone riguarda l’uso dell’aggettivo maremmano/a.
La Maremma è una vasta regione geografica interamente compresa nell’attuale provincia di Grosseto; appartiene, pertanto, alla sola Toscana. Quella che oggi viene da alcuni impropriamente chiamata Maremma laziale è un’amplissima area
corrispondente – al tempo in cui l’odierno Lazio era parte dello Stato della Chiesa – alla Tuscia suburbicaria o Tuscia romana (attualmente, province di Roma e di Viterbo) e, a Sud di questa, alla Campagna di Roma (attualmente, province di Roma, di Latina e di Frosinone).
Dunque, è giusto definire maremmane soltanto le razze/popolazioni animali il cui allevamento sia iniziato ed abbia avuto il suo maggiore sviluppo in Maremma.
Ciò premesso, vanno considerati maremmani o, più precisamente, toscani maremmani i cavalli discendenti dalle vecchie razze indigene delle Maremme Toscane e dalla piccola razza dei monti delle Maremme, secondo la Notificazione del 23 Gennaio 1857, relativa all’Esposizione Agraria Toscana indetta per il mese di Giugno di quello stesso anno alle Cascine dell’Isola presso Firenze.
Non vanno, invece, indicati come maremmani i bovini grigi dalle lunghe corna presenti in Maremma, giacchè nella citata Notificazione si faceva menzione di una non meglio identificata razza brada da carne e da lavoro.
In realtà, quei bovini appartenevano alla famosa razza romana – assai numerosa nella Campagna di Roma, in Sabina e nella Tuscia romana – diffusa in Maremma per semplice contiguità geografica all’area d’origine.
Raffigurazione di toro romano
(Da A. Pirocchi, I bovini del Lazio, Piacenza, 1899)
Non si capisce perché essa sia stata ribattezzata, nei primi anni del XX secolo, maremmana dal momento che – secondo un dato ripreso dal Pirocchi in un suo saggio del 1899, intitolato I bovini del Lazio – l’entità della razza romana nel territorio laziale ammontava, nel 1881, a ben 93.838 capi.
Pari, se non maggiore, a quella del bovino romano era la fama del cavallo romano – oggi inspiegabilmente confuso con il maremmano – di cui sarà presto intrapreso il recupero genealogico e morfologico.
La razza cavallina romana va annoverata tra quelle storiche, meritevoli di particolare tutela giuridica, come la napolitana, la siciliana, la sarda, la toscana (nelle sue varietà pisana e maremmana), la mantovana e le eventuali altre razze delle quali risulti seriamente praticabile la ricostruzione.
C’è da augurarsi che le considerazioni fin qui svolte succintamente diano vita ad un ampio ed animato dibattito, non solo nelle sedi istituzionali preposte alla trattazione delle più importanti tematiche inerenti alla zootecnia italiana, bensì anche all’interno dei vari centri, scolastici ed accademici, d’istruzione agraria e veterinaria. Ne scaturirà una visione sicuramente più estesa e più lungimirante in ordine alle delicate questioni di politica agroalimentare che il nostro paese è chiamato ad affrontare.
Giuseppe Maria Fraddosio svolge dal 1987 per proprio conto ricerche e studi su alcune antiche razze italiane di animali domestici e collabora con il periodico l’Allevatore. E’ autore di alcuni saggi di storia della zootecnia, in particolare sul cane Mastino Abruzzese e sul cavallo Corsiero Napolitano.