Il vino Chianti, una tradizione che sta scomparendo
di Francesco Sodi
Il Chianti
A volte ripenso ai racconti dei miei nonni, tutti viticoltori del Chianti: mi parlavano spesso del loro vino, prodotto che qui, nelle colline del “Chianti Storico”, insieme all’olio, contribuisce in modo determinante all’economia agricola e rappresenta un prodotto d’eccellenza rinomato in tutto il mondo. Purtroppo, dal mio personalissimo punto di vista, negli ultimi anni, sono state introdotte nuove tecniche e approvati nuovi disciplinari di produzione del Chianti Classico (l’ultima modifica risale al 2002) che hanno portato ad un cambiamento radicale del vino prodotto.
Per prima cosa basta osservare i vigneti che ricoprono le nostre colline: nei nuovi impianti, la forma di allevamento utilizzata è il cordone speronato al posto del tradizionale “archetto toscano”. Il motivo di tale cambiamento è da ricercare nella necessità di ridurre i costi di gestione. Nella forma tradizionale, per la legatura dei tralci si impiegavano i vimini e tutte le potature venivano eseguite a mano. Oggi invece, grazie al cordone, con il passaggio di una macchina operatrice che taglia tutti i tralci alla stessa lunghezza, l’operatore fa solo il lavoro di rifinitura; anche le altre operazioni sono molto semplificate: la legatura, la potatura verde, i trattamenti e infine la raccolta (i grappoli si trovano tutti alla stessa altezza).
Anche la raccolta è molto cambiata: prima si eseguiva a mano, oggi invece è consentito l’uso delle vendemmiatrici, che pur essendo migliorate rispetto alle prime impiegate, non svolgono il lavoro come se fosse fatto manualmente.
Il trasporto alla cantina non è più fatto con le bigonce (recipienti in legno fatto a doghe tenute insieme con cerchi di legno, di forma leggermente svasata dal fondo alla bocca e sezione ovale) ma con ceste in plastica o carrelli appositi.
Ma veniamo al punto cruciale che ha cambiato profondamente la produzione del vino, cioè l’uvaggio; prima venivano usati sia vitigni neri (Canaiolo, Colorino, vitigno dalla polpa colorata, oltre al Sangiovese) che bianchi: quelli neri costituivano circa il 70-80% dell’uvaggio, mentre il restante 20-30% era formato da vitigni bianchi, quali Malvasia e Trebbiano; era inoltre possibile e consigliato il taglio in quantità limitata con mosti provenienti dal sud, oggi sostituiti dai mosti concentrati. Poi si è iniziato a ridurre la percentuale dei vitigni bianchi (il disciplinare del 1996 ne consentiva l’uso fino al 6%) fino a farli scomparire (ultimo disciplinare di produzione approvato nel 2002). Si è iniziato a vinificare Sangiovese al 100%: questo perché si dice che i vitigni bianchi non permettono di ottenere un vino dal colore rosso intenso (tanto apprezzato ora dal mercato); ma questi vitigni conferivano altre caratteristiche che erano tipiche del “nostro vino” definito rosso rubino.
Ma non contenti di aver eliminato i vitigni bianchi si è iniziato a utilizzare vitigni “internazionali”, quasi tutti di origine francese quali Cabernet Frank e Sauvignon, Merlot, Syrah e così via; il motivo è perché questi vitigni riescono a raggiungere, a parità di andamento climatico, un grado zuccherino più elevato e una colorazione delle bucce più intensa rispetto ai vitigni rossi autoctoni (Canaiolo e Colorino).
Inoltre è stata quasi abbandonata la tecnica del “governo all’uso toscano”, che consiste in una lenta rifermentazione del vino appena svinato con grappoli scelti e lasciati leggermente appassire su stuoie o appositi locali aerati.
Nelle nostre cantine, tranne che in rari casi, non si vedono più i tini in legno dove avveniva la prima fermentazione e si vedono poco anche le classiche botti in legno per la maturazione del vino: questi recipienti tradizionali sono stati sostituiti nel tempo prima da contenitori in cemento, poi in vetroresina e oggi dall’acciaio inox, perché sono materiali di più facile pulizia e perchè richiedono minori cure. Nel passato ogni fattoria ricavava le proprie botti e tini dal bosco aziendale: non c’era quindi una botte o un tino uguale, e ciò conferiva al vino prodotto in ogni azienda un sapore particolare e caratteristico.
Oggi, invece, per soddisfare i gusti del consumatore si deve produrre vino con caratteristiche uguali per ogni annata. Per ottenere questa standardizzazione del prodotto si fa sempre più ricorso anche all’impiego di lieviti selezionati, in grado di condurre la fermentazione alcolica sempre nello stesso modo, e di batteri lattici, responsabili della fermentazione malolattica, che abbassa l’acidità e rende il vino più gradevole al palato.
Infine, sempre più spesso, il vino viene fatto maturare in “barrique”, piccole botti in rovere, le cui doghe più o meno tostate conferiscono sapori e aromi (es. vaniglia, nocciola) apprezzati da molti consumatori ma che ne appiattiscono le caratteristiche organolettiche.
Anche sotto l’aspetto della commercializzazione le cose sono cambiate: sono quasi scomparsi i tipici fiaschi impagliati sostituiti dalle bottiglie bordolesi, perdendo così un altro pezzo della nostra tradizione.
Fiasco tradizionale e bottiglia bordolese
Tutti questi cambiamenti hanno portato diversi vantaggi (vino di colore più intenso e di gusto uniforme, sempre che si possa definire vantaggio; semplificazione dei processi di coltivazione della vite – meccanizzazione spinta – e di produzione del vino), ma anche tanti svantaggi: il Chianti è rimasto un vino di qualità ma simile ad altri. E così in altre zone hanno cominciato a copiarlo (in particolare in California) andando a far concorrenza al nostro prodotto; altra conseguenza negativa è stata la diminuzione delle quotazioni di mercato che ha mandato in crisi molte aziende, semplicemente perché il nostro vino ha perso le sue caratteristiche peculiari.
Forse tra qualche anno, qualche esperto di mercato, produttore accorto o altro, metterà in dubbio la validità delle scelte fatte e spingerà per il ritorno alle tecniche tradizionali, che si tramandavano da secoli. Del resto non è successo questo anche per molte razze autoctone di animali? Per molte di queste però la richiesta di intervento è arrivata troppo tardi; speriamo non accada questo anche per il Chianti “tradizionale” e che si riesca ad intervenire in tempo.
Francesco Sodi si è diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario di Firenze. Selezionatore e allevatore di avicoli, responsabile tecnico dell’azienda agricola “Podere l’Uccellare” nel Chianti Classico, è iscritto al terzo anno del corso di laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie presso l’Università di Firenze.