di Gabriella Di Massimo
Tuber mesentericun Vittad. (foto Gabriella Di Massimo)
Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate tartufo nero pregiato (con particolare riferimento all’esperienza delle regioni dell’Italia Centrale)
Nelle zone di collina e montagna che presentano caratteristiche pedoclimatiche idonee a diverse specie di tartufi neri (Tuber aestivum Vittad., Tuber brumale Vittad., Tuber mesentericum Vittad.), è stata privilegiata la coltivazione di Tuber melanosporum perché più pregiato.
Nel primo decennio di coltivazione dei tartufi, la tendenza purtroppo, è stata quella di dare importanza soprattutto alla micorrizazione della pianta simbionte, senza tenere nella giusta considerazione i caratteri pedoclimatici del sito di impianto, nell’errata convinzione che piante ben micorrizate avrebbero comunque prodotto tartufi. Ovviamente queste prime piantagioni hanno fornito risultati produttivi diversificati e poco soddisfacenti: accanto a piantagioni produttive se ne registrano altre improduttive realizzate in ambienti non idonei, oppure con piante simbionti non ben micorrizate o coltivate in maniera irrazionale.
Nel decennio 1990-2000, sono stati approfonditi gli studi sull’ecologia delle specie pregiate di Tuber, è diventata una prassi il controllo della micorrizazione delle piante tartufigene prodotte e commercializzate, ed inoltre è stata effettuata la divulgazione dei risultati delle ricerche attraverso pubblicazioni scientifiche e corsi di formazione alle associazioni di tartufai ed ai professionisti che operano nel territorio. Il risultato di questi sforzi ha consentito il miglioramento della progettazione, realizzazione e coltivazione delle piantagioni tartufigene. Gli impianti di tartufo nero pregiato realizzate negli ambienti idonei, utilizzando la specie di pianta simbionte adatta al sito e adottando opportune pratiche colturali di impianto e post-impianto, stanno fornendo produzioni soddisfacenti ed in alcuni casi eccezionali (da 20 – 30 kg/ha a oltre 100 kg/ha).
Tuber melanosporum Vittad. (foto Gabriella Di Massimo)
Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate tartufo bianco
Gli impianti di tartufo bianco sono stati realizzati soltanto fino al 1992-93; successivamente le micorrize che, su basi morfologiche, si ritenevano di tartufo bianco non sono state confermate come tali dall’analisi molecolare e ciò ha determinato un blocco della produzione delle piante micorrizate. Nelle ultime due stagioni produttive, due tartufaie realizzate nel 1985-87 e situate in due località distanti tra di loro, hanno iniziato a produrre ottimi carpofori di tartufo bianco. Per cui riteniamo che sia possibile coltivare con successo anche questa specie, debbano però, essere continuati e approfonditi gli studi sull’ecologia, sulle tecniche di micorrizazione e di coltivazione, fortunatamente ci sono vari gruppi di ricercatori, prevalentemente italiani che stanno affrontando le varie tematiche ancora da chiarire per riuscire a coltivare questo prezioso tartufo.
Tuber aestivum Vittad. (foto Gabriella Di Massimo)
Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate da tartufi minori: tartufo nero estivo o scorzone e tartufo bianchetto o marzuolo.
Negli ambienti ritenuti non idonei alle due specie pregiate di tartufo, sono state realizzate tartufaie utilizzando i così detti “tartufi minori” e cioè Tuber aestivum Vittad. e Tuber borchii Vittad.
In alcune piantagioni di Tuber melanosporum si è verificata la sostituzione delle micorrize del tartufo nero con quelle di Tuber aestivum. In particolare, in una tartufaia situata nel comune di Spoleto, una parcella di 5000 mq di carpino nero realizzata con piante micorrizate da Tuber melanosporum, impiantata nel 1984, ha fornito nelle ultime stagioni produttive buoni quantitativi di tartufi estivi (25-70 kg). Impianti realizzati con piante micorrizate da Tuber aestivum in siti idonei, hanno dimostrato una precoce entrata in produzione ( quarto – quinto anno dall’impianto) e una produzione piuttosto elevata ( 30 – 50 kg/ha).
Tuber borchii (bianchetto) è notoriamente una specie a larga diffusione e apparentemente molto adattabile alle condizioni pedoclimatiche più diverse. Esso, comunque, mostra una forte dipendenza dalle conifere: in moltissimi rimboschimenti a Pinus nigra Arnold si raccolgono discreti quantitativi di carpofori di questa specie. Ricerche sull’ecologia del bianchetto hanno rilevato una larga distribuzione e la capacità di colonizzare anche i terreni sub-acidi.
I migliori risultati produttivi verificati in tartufaie presenti in Umbria, Lazio e Campania, sono stati ottenuti in terreni con tessitura franco-sabbiosa o franco-sabbiosa-argillosa, quindi suoli assolutamente non compatti, caratterizzati da bassi valori di densità apparente, con calcare in basse percentuali e con pH che può variare dalla lieve acidità a leggermente alcalino. Anche in questo caso le produzioni sono state relativamente precoci e quantitativamente significative.
Conclusioni
La tartuficoltura può essere considerata un’attività agronomico – forestale piuttosto recente se paragonata a coltivazioni quali la viticoltura o l’olivicoltura che si praticano da tempi biblici.
Rispetto alle colture legnose tradizionali ha una maggiore complessità perché è basata su un organismo complesso, la pianta micorrizata, che è data dall’unione di due elementi l’uno vegetale, l’altro fungino appartenenti addirittura a due Regni diversi.
I fattori da tenere sotto controllo per arrivare al risultato finale vale a dire una produzione di tartufi economicamente valida e costante nel tempo sono molteplici e non tutti ancora perfettamente noti (per. es. lo studio della microflora del suolo che, probabilmente, ha un ruolo fondamentale è ancora agli inizi).
Negli ultimi tre decenni del secolo scorso, grazie allo sforzo di numerosi ricercatori soprattutto italiani francesi e spagnoli sono state acquisite conoscenze fondamentali sulla biologia e sull’ecologia delle specie appartenenti al genere Tuber e sono state poste le basi per una tartuficoltura razionale.
Sicuramente rimane molto da fare nel settore della ricerca e della sperimentazione ma, crediamo ne valga la pena, in quanto la tartuficoltura permette di produrre un bene di elevato valore economico, la cui domanda è in continua crescita sui mercati mondiali e la cui produzione ha un impatto positivo sull’ambiente in quanto non può prescindere dal rimboschimento, con tutti i benefici ambientali e paesaggistici che esso comporta.
Gabriella Di Massimo è laureata in Scienze Agrarie presso l’Università di Perugia. Iscritta al Registro Nazionale Micologi, svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, nel progetto “Evoluzione della micorrizazione in tartufaie sottoposte a differenti tecniche colturali” presso l’Università degli studi di Perugia. Curriculum vitae >>>