di Marco Di Fulvio
In un’economia che fallisce – ed il fallimento è sotto gli occhi di tutti –
lo spreco è solo uno di questi fallimenti; noi abbiamo riconosciuto il
mercato come composto da due valori, valore di scambio e valore d’uso,
dimenticando che esiste un terzo valore, economico anch’esso, il
valore di legame, che è pure uno scambio. […] il valore di legame,
che conduce alla reciprocità […] alla relazione. Relazione che ci
manca, che manca alle persone, l’abbiamo persa e lo vediamo nel
rifiuto dei beni danneggiati (per esempio: noi oggi rifiutiamo merci
perché non sono esteticamente belle, non si presentano bene o stanno
per scadere o sono obsolete)
– Segrè, “I buoni frutti”
Premessa
L’affermarsi della frutticoltura specializzata ed intensiva ha consistentemente modificato nella seconda metà del XX secolo l’assortimento varietale dei fruttiferi, sia per la sostituzione delle varietà locali con cultivar avanzate e di elevata produttività e standardizzazione, sia per l’abbandono di molte specie minori, un tempo inserite nei sistemi a conduzione tradizionale come integrazione delle produzioni principali e del consumo domestico. Il patrimonio frutticolo autoctono si è quindi andato assottigliando, nell’ambito di un processo di erosione genetica che coinvolge complessivamente la produzione agricola.
All’opposto, la domanda crescente di ruralità da parte dei cittadini ha posto le premesse per un arricchimento progressivo dell’attività agricola con una valutazione multidimensionale che include variabili di valore e fattori quali-quantitativi.
In tal modo l’agricoltura sta trovando riconoscimento, accanto alla tradizionale funzione economico-produttiva, anche come fattore di sviluppo economico-sociale e strumento di salvaguardia e valorizzazione ambientale e dell’identità del territorio.
La controparte attiva, il giudice di questo processo in itinere è “un nuovo consumatore, che ha cambiato pelle in cerca di esperienze, più che prodotti, di emozioni e sensazioni, più che valori d’uso” (G. Fabris “Il nuovo consumatore: verso il post-moderno” Franco Angeli, Milano, 2003)
Biodiversità frutticola: istruzioni per l’uso
“Poichè la globalizzazione tende a creare un unico mercato con enormi economie di scala che premiano chi fa lo stesso business o vende lo stesso prodotto in tutto il mondo, essa può provocare una simultanea omogeneizzazione dei consumi in tutto il mondo……..
E poichè la globalizzazione – che è una forza culturalmente omogeneizzante – si diffonde così rapidamente, c’è il pericolo che in pochi decenni questa forza spazzi via le diversità ambientali e culturali che hanno richiesto milioni di anni di evoluzione biologica e umana per prodursi…….”
(T.L. Friedman “The Lexus and the olive tree” Anchor Books, N.Y., 2000)
La salvaguardia della biodiversità e la valorizzazione delle risorse genetiche sono temi molto complessi, che richiedono un approccio integrato di più attori e una strategia basata sulla multidisciplinarietà.
Fino a 40-50 anni fa le varietà locali rappresentavano la base produttiva in gran parte del mondo. Il diffondersi di un’agricoltura più intensiva e l’avvio di vasti programmi di miglioramento hanno portato all’affermazione esclusiva di poche varietà, uniformi per aspetti genetici e sensoriali.
Perdere variabilità genetica equivale a perdere per sempre una risorsa non rinnovabile. Questa perdita può causare conseguenze negative sul futuro dell’agricoltura, a causa della perdita di caratteri resistenti alle avversità climatiche e parassitarie, e dello stato generale della salute umana stessa, per l’impoverimento di principi nutritivi dovuto alla standardizzazione delle cultivar, o per il diverso impatto ambientale delle cure colturali che queste ultime richiedono.
Il Manifesto del cibo e cambiamenti climatici redatto nel 2008 dalla Commissione Internazionale per il Futuro dell’Alimentazione e dell’Agricoltura evidenzia che le aziende biologiche e biodinamiche, ricche di biodiversità, aumentano l’efficienza di assorbimento della CO2 del 50% e conservano l’umidità del suolo del 10-20% in più rispetto alle aziende agricole industrializzate.
Inoltre, l’agricoltura tradizionale è produttrice di cultura, perché sono cultura tutte le attività che ruotano intorno a ogni varietà tradizionale: modalità di coltivazione, raccolta, conservazione e impiego nella preparazione dei cibi.
Nel caso del melo, l’80% dei frutti che mangiamo e coltiviamo sono riconducibili principalmente a tre sole varietà (ISPRA, Quaderni Natura e Biodiversità, 1-2010), con i limiti qualitativi che evidenzieremo.
Le varietà di meli tradizionali, che verrebbe da chiamare “irriducibili” – nonostante siano conservate in buon numero dai centri di ricerca nazionali afferenti al CRA (Centro per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura), in ragione di 834 – sono oggetto di studi di caratterizzazione chimico compositiva per confronto con cultivar migliorate, impiegate in agricoltura convenzionale.
Interessanti al proposito sono i dati pubblicati nel 2011 da Biolabs – Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (“Le antiche varietà di fruttiferi del Casentino”), in particolare per i contenuti di fenoli e flavonoidi totali e per l’attività antiossidante di quattro varietà tradizionali (Mora, Nesta, Panaia, Ruggina) confrontate con le cultivar commerciali Golden delicious e Stark delicious.
L’Assemblea Generale dell’ONU ha dichiarato il 2021 l’Anno Internazionale della Frutta e Verdura. La decisione è stata assunta con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dei comnsumatori sui benefici nutrizionali e per la salute legati al maggior consumo di frutta e verdura come parte di una dieta diversificata e bilanciata e, al contempo, per indirizzare l’attenzione politica alla riduzione delle perdite e degli sprechi di questi prodotti.
La produzione mondiale di frutta e verdura permetteva, nel 2000, un consumo di 306 g pro-capite al giorno, contro i 400 g stimati dall’OMS come introduzione alimentare giornaliera necessaria. Nel 2017 la media disponibile è salita a 390 g, ma in questo computo vanno incluse porzioni normalmente scartate, come il torsolo e la buccia della frutta, con perdite percentualmente considerevoli non solamente di volume, ma anche, come vedremo dai dati analitici relativi alle mele, di fonti preziose di nutrienti.
In Italia il valore della produzione ortofrutticola totale è stato nel 2020 di 11,4 miliardi di euro, il 23,2% del totale della ricchezza generata dall’intero settore primario nazionale (F. Ciconte, S. Liberti, Associazione Terra, “Siamo alla frutta”, 2021). Quasi la metà del valore è stato generato dalla produzione di frutta.
Svolte queste considerazioni, si dà facilmente conto della ragione per cui quanto acquistiamo non può essere considerato semplicemente frutta, ma un prodotto selezionato geneticamente, coltivato, raccolto, passato al vaglio di macchine calibratrici, adatto a lunghi trasferimenti e infine etichettato come prodotto “Extra” o “Categoria 1”. Dimensioni standard, colorazione della buccia, assenza di difetti visibili, qualità organolettiche, grado brix (percentuale di zuccheri presenti): questi i requisiti inappellabili per l’inserimento del prodotto nella catena distributiva nazionale. Prodotti di minore qualità (Categoria 2) sono invariabilmente destinati all’export verso Paesi con minore potere d’acquisto, alla trasformazione in succhi e puree, o ad ingrassare i già robusti dati sullo spreco alimentare, che in alcuni casi raggiunge il 60% dei volumi avviati alla distribuzione organizzata.
In un clima produttivo e dei consumi – guidati o non – siffatto, l’antinomia bello o buono si presta a doverosi approfondimenti.
Gli studi:
“Gli italiani a tavola. Stili di consumo e rischi alimentari” (IRES 2005)
“Eurobarometro” (feb/2006)
hanno riassunto in un indice di Priorità/requisiti di qualità del prodotto orto-frutticolo le richieste del consumatore attento:
-sanità e igiene
-tecniche di coltivazione a basso impatto ambientale
-assenza di Ogm/molecole indesiderate
-basso/nullo residuo di fitofarmaci
-qualità alimentare (la capacità di apportare nutrienti in quantità significative) e sensoriale (“sapere i sapori”)
-sicurezza dei lavoratori
-etica del lavoro
La società moderna esprime in sintesi una nuova richiesta di informazioni associate al prodotto e di servizi connessi alla dimensione culturale che contraddistingue alimenti e territori rurali.
All’interno di questo chiaro e innovativo perimetro – che diremo olistico – di riferimento, è nato e si sta sviluppando il progetto di reperimento e valorizzazione di coltivazioni frutticole tradizionali dell’azienda agricola Kimamori a Soriano nel Cimino (VT).
L’impianto di numerose varietà di meli recuperati alla coltura e provenienti da piante madri localizzate lungo la dorsale appenninica centrale (dalle Marche al Lazio) [*ci si riferisce alla ricerca ultradecennale di Archeologia arborea di Città di Castello (PG)], lo studio delle proprietà nutrizionali del frutto che ne sollecitano l’impiego non solamente come prodotto da riscoprire per particolari virtù organolettiche, ma anche e soprattutto come alimento funzionale alla conservazione dello stato di salute generale e alla prevenzione di disordini organici e patologie derivanti dall’esposizione a fattori inquinanti, hanno condotto il titolare dell’impresa a generare dati sperimentali sulla concentrazione di elementi antiossidanti di particolare significato e concentrazione nel frutto intero e nel pericarpo. In particolare, gli studi di cui si riferirà più oltre sono stati condotti su due varietà ritrovate nell’Appennino Umbro-marchigiano: la mela Verdacchia, o Del castagno, e la mela Rosa in pietra, o Sassa. Entrambe sono varietà vigorose e rustiche, con frutti da raccolta tardiva, molto serbevoli. Di buccia verde con sfumature gialle a maturazione, la prima, e giallo-verde con sfumature rosso vinoso, la seconda. Entrambe sono caratterizzate da polpa bianca, croccante e acidula, poco succosa, ma molto aromatica.
Valutazione nutrizionale
“Fino ad oggi sono stati identificati più di 8.000 nutrienti vegetali in grado di produrre effetti sul nostro organismo: molecole antiossidanti, molecole che stimolano la comunicazione intracellulare o che producono modificazioni al nostro DNA. Più di 30.000 pubblicazioni scientifiche dal 2000, titoli e redazionali continui sulla stampa: fitonutrienti come il licopene, il resveratrolo, le antocianine sono assurti al ruolo di vere e proprie star della nutrizione.
Il punto è se abbiamo bisogno di pillole contenenti estratti o piuttosto di alimenti freschi ad alta concentrazione naturale di questi nutrienti.”
(Cooperativa sociale agricola O.R.T.O. “Semi Liberi – guida pratica e spirituale alla scelta e al consumo dei germogli freschi da piante salutari” Le strade bianche di stampa alternativa, 2019)
Condizioni quali la resistenza all’insulina, l’ipertensione, l’osteoporosi possono essere influenzati da uno o più fattori riconducibili alla dieta. Si ritiene inoltre che questi intervengano nell’espressione genetica individuale. La trasmissione delle alterazioni genetiche per via ereditaria alla nostra discendenza e il riconoscimento di queste come fattori predisponenti a esiti patologici sono al centro degli studi di epigenetica.
In questa aggiornata prospettiva troverebbe giustificazione aggiornare il detto di Feuerbach secondo cui “siamo ciò che mangiamo” aggiungendo che ci modifichiamo (noi e i nostri geni) non solamente per l’invecchiamento, ma anche per quello che respiriamo e ingeriamo, per come affrontiamo gli impegni quotidiani, per l’attività fisica, per il contatto con agenti chimici dispersi nell’ambiente e per una serie imprevedibile di fattori.
L’epigenetica è lo studio di come l’alimentazione, i nutrienti e i composti chimici aggiunti assunti con la dieta possono influenzare la risposta genetica individuale, contribuendo a causare, prevenire o modificare l’insorgenza di malattia. E dato che queste modifiche genetiche si trasmettono (il caso esemplare è la somministrazione di acido folico alle future mamme prima del concepimento, per la prevenzione di malformazioni del feto), possiamo ben affermare che mangiare è un atto di responsabilità, non solamente per noi e per l’ambiente, ma anche e soprattutto per la discendenza.
Uno studio effettuato sulle realtà spagnola e italiana ha rilevato che le giovani generazioni abbandonano gradualmente e in modo costante la dieta mediterranea a favore di nuove tendenze alimentari caratterizzate da cibi a elevato contenuto di grassi. Sovrappeso e obesità in Italia e Spagna sembrano essere correlate, oltre che alla ridotta attività fisica, all’abbandono della dieta mediterranea (Baldini, 2008).
Alimentarsi in modo sano vuol dire preferire prodotti non trattati, prediligere frutta e verdura di stagione, consumare prodotti di qualità, tradizionali, del territorio e biologici.
La ricerca citata ha dimostrato che i vegetali coltivati con le tecniche moderne, che garantiscono raccolti quantitativamente più elevati, hanno un contenuto di vitamine e sali minerali di gran lunga inferiore a quello di cinquant’anni fa, a causa dell’ “effetto diluizione”. Frutta e verdura sono di dimensioni maggiori perché contengono più acqua: il loro valore nutrizionale è proporzionalmente più basso che in passato. Non è una questione tecnica, perché ha delle conseguenze sulla salute.
I prodotti biologici contengono una quantità maggiore di sostanza secca, una concentrazione maggiore di minerali come ferro e magnesio, micronutrienti con effetti antiossidanti come i polifenoli.
Un piano alimentare adeguato alla Dieta Mediterranea Italiana di Riferimento, ben bilanciato e basato preferenzialmente su alimenti biologici (Italian Mediterranean Organic Diet, IMOD), diminuisce i fattori infiammatori (citochine pro-infiammatorie), riduce lo stress ossidativo (lipidi idroperossidi e metaboliti dell’ossido di azoto) e il rischio cardiovascolare (omocisteina e profilo lipoproteico) in soggetti sani, preobesi/obesi e affetti da insufficienza renale cronica.
Per “Dieta Mediterranea Italiana Biologica” – IMOD si intende una dieta equilibrata in cui prevalgono alcuni gruppi di alimenti tipici mediterranei provenienti da agricoltura biologica: cereali, legumi, ortaggi, frutta fresca e secca, olio vergine di oliva, prodotti della pesca, e come bevande alcoliche vino rosso.
Il cambiamento alimentare su scala globale sta creando grosse preoccupazioni di natura sanitaria pubblica, poiché i modelli alimentari rivestono il fattore di rischio principale nell’insorgenza delle malattie non trasmissibili, soprattutto per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, diabete e alcuni tipi di tumore (Daar et al. 2007).
Almeno 100 anni di studi epidemiologici hanno dimostrato le associazioni tra la dieta, lo stile di vita e l’aumentata incidenza e severità delle malattie croniche non trasmissibili.
Bisogna sottolineare che gli studi condotti sino a oggi sull’alimentazione su scala globale si sono sempre concentrati sugli effetti sulla popolazione, tenendo in scarsa considerazione le implicazioni di coltivazione, allevamento, il sistema di commercializzazione, di produzione, di distribuzione e le modalità di vendita degli alimenti. Il settore produttivo e il settore sanitario sono ampiamente disconnessi nelle priorità e negli obiettivi. Il settore produttivo alimentare focalizza le priorità su logiche di produzione quantitativa e di andamento dei prezzi di mercato con la sola preoccupazione inerente la sicurezza igienica alimentare, che deve essere garantita per necessità di scambi commerciali, senza tenere in considerazione gli effetti positivi e negativi del consumo di taluni alimenti sulla salute umana.
La mela tradizionale intera: un functional food?
I fitonutrienti contenuti nella frutta e verdura agiscono come molecole segnale modulando diversi processi molecolari associati con la prevenzione di diverse malattie. Le componenti bioattive delle mele tradizionali in genere (acidi triterpenici, catechine, proantocianidine e diidrocalconi fra le altre), pongono questi frutti in una posizione di estremo interesse per un consumo nell’ambito di diete bilanciate con finalità antiossidante, antitumorale, antidiabetica, antiinfiammatoria e neuroprotettiva. Mele di varietà tradizionali, che per il loro aspetto verrebbero classificate di Categoria 2, hanno dimostrato di contenere elevate quantità di sostanze bioattive con effetto protettivo nei confronti di stress ossidativo e di modulazione della risposta infiammatoria (IL-1, 1L-6, IL-10, TNF-α, COX-2) (F. Maggi, Functional Foods, Pharmanutrition V-4, 2020).
Queste mele di valore commerciale minore sono autentici serbatoi di polifenoli: sono disponibili in numero sempre crescente studi sui contenuti di questi fitonutrienti in mele tradizionali provenienti da frutticoltura locale a confronto con cultivar migliorate provenienti da frutticoltura intensiva e distribuzione nazionale. Fra questi merita attenzione per l’ampiezza dei parametri presi in considerazione, una ricerca indipendente condotta da M. Del Bubba ed altri ricercatori del Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze (L. Lamperi, U. Chiuminato, A. Cincinelli, P. Galvan, E. Giordani, L. Lepri, M. Del Bubba “Polyphenol levels and free radical scavenging activities of four apple cultivars from integrated and organic farming in different italian areas” , J. Agric. Food Chem. 2008, 56, 6536-6546 ): l’esame dei dati analitici riferiti a fattori quali il genotipo, le tecniche colturali e la localizzazione geografica della coltivazione stessa, inducono gli autori a ricondurre i dati sulla maggiore disponibilità di polifenoli e su un effetto antiossidante più marcato al patrimonio naturale di polifenoli del genotipo mela tradizionale (nel caso in esame, Annurca campana da coltivazione biologica), e a rappresentarlo come scelta d’elezione del consumatore critico e attento agli effetti biochimici positivi dell’alimentazione comune.
Su questa direttrice di indagine si è mossa l’azienda agricola Kimamori: campioni di mele (mela Verdacchia e mela Rosa in pietra) provenienti da un frutteto destinato alla custodia colturale di varietà della dorsale appeninica centrale [** pumo cimbro, mela rosa in pietra, mela fiorentina, mela righetta, mela verdacchia, mela conventina, mela ciucca, mela roggia, mela sona, mela bianchina, mela oliata, mela bellaccia, mela rosa, mela calvè, mela nesta, mela renetta ruggine] sono stati avviati a varie prove di determinazione dei contenuti di polifenoli e del potenziale protettivo nei confronti di patologie di origine intestinale.
Estrazione e quantificazione di composti bioattivi in estratti di Mela Rosa in pietra e Mela Vardacchia mediante HPLC
DILETTA PIATTI, Chemistry Interdisciplinary Project (ChIP), School of Pharmacy, University of Camerino, Via Madonna delle Carceri 9/B, 62032 Camerino, Italy
I frutti interi di mela Rosa in pietra e di mela Verdacchia sono stati estratti mediante estrattore ad ultrasuoni a temperatura ambiente con etanolo 70%.
Gli estratti ottenuti, dopo essere stati essiccati, sono stati analizzati mediante HPLC-DAD usando il metodo analitico precedentemente sviluppato dal gruppo di ricerca del Professore Filippo Maggi, ordinario presso l’Università di Camerino (J. G. Nkuimi Wandjou, S. Mevi, G. Sagratini, S. Vittori, S. Dall’Acqua, G. Caprioli, G. Lupidi, G. Mombelli, S. Arpini, P. Allegrini, F. Les, V. López, F. Maggi “Antioxidant and Enzyme Inhibitory Properties of the Polyphenolic-Rich Extract from an Ancient Apple Variety of Central Italy (Mela Rosa dei Monti Sibillini)”, Plants, 2019, 9(1), 9).
La quantificazione dei composti bioattivi è stata realizzata mediante eluizione in gradiente (metanolo-acqua) con un HPLC- DAD, equipaggiato con una colonna a fase inversa.
Ogni composto è stato monitorato e quantificato ad una determinata lunghezza d’onda.
Gli estratti sono risultati ricchi in composti fenolici, molecole molto diffuse nelle piante. Come è noto, l’assunzione quotidiana di questi elementi riduce il rischio di malattie dell’apparato circolatorio, l’incidenza di tumori e migliora il processo infiammatorio spesso legato a molte altre patologie (M. D. dos Santos, M. C. Almeida, N. P. Lopes, G. E. de Souza “Evaluation of the anti-inflammatory, analgesic and antipyretic activities of the natural polyphenol chlorogenic acid”, Biological & pharmaceutical bulletin. 2006, 29(11), 2236–2240).
Fra questi, di particolare rilevanza sono risultati la catechina e l’epicatechina, le procianidine A2 e B2, la rutina e la quercetina 3-galattoside, gli acidi oleanoico, ursolico ed annurcoico. Sono stati riscontrati notevoli livelli di acido clorogenico (931,62 ppm nell’estratto di mela Verdacchia e 646,19 ppm nell’ estratto di mela Rosa in pietra). Questa molecola è associata ad un’azione antipertensiva, antiobesità, epatoprotettiva, cardioprotettiva e neuroprotettiva. (M. Naveed, V. Hejazi, M. Abbas, A. A. Kamboh, G. J. Khan, M. Shumzaid, F. Ahmad, D. Babazadeh, X. FangFang, F. Modarresi-Ghazani, L. WenHua, Z. XiaoHui “Chlorogenic acid (CGA): A pharmacological review and call for further research” Biomedicine & pharmacotherapy, 2018, 97, 67–74). Anche la quercetina (nel nostro caso è presente la quercetin 3-galattoside: 193,82 ppm nell’estratto di mela Verdacchia e 177,05 ppm in quello della mela Rosa in pietra), la catechina e l’epicatechina (riscontrate solo nell’estratto della mela Verdacchia rispettivamente nelle seguenti quantità: 164,22 ppm e 210,27 ppm) hanno una mostrato notevole attività contro i radicali liberi (P. Iacopini, M. Baldi, P. Storchi, L. Sebastiani “Catechin, epicatechin, quercetin, rutin and resveratrol in red grape: Content, in vitro antioxidant activity and interactions”Journal of Food Composition and Analysis, 2008, 589– 598) L’acido ursolico, presente nell’estratto di mela Verdacchia (376,15 ppm) e in quello della mela Rosa in pietra (533,04 ppm), è riportato in letteratura per l’azione antinfiammatoria e antitumorale, poco è noto sull’acido annurcoico, chimicamente affine. In entrambi i campioni in esame l’acido annurcoico è uno dei composti maggiormente presenti nell’estratto (mela Verdacchia 1418,83 ppm mela Rosa in pietra 494,67 ppm), aspetto quest’ultimo che andrebbe approfondito e valorizzato.
Dai risultati ottenuti si evince che queste antiche varietà di mele sono una fonte importante di polifenoli.
Lo studio dei campioni freschi di mela Rosa in pietra e di mela Verdacchia dell’azienda agricola Kimamori permette quindi di suggerire l’uso del frutto intero come fonte di integrazione di polifenoli nella dieta quotidiana.
ANTI-INFLAMMATORY EFFECT OF PROBIOTICS ON CO-CULTURE MODELS OF MACROPHAGE-LIKE AND CACO-2 CELLS
(poster presentato a VITAFOODS 2016, GENEVA)
BARBARA DE SERVI e MARISA MELONI – VITROSCREEN In Vitro Research Laboratories, Milano
Le proprietà immunomodulatorie di Malus domestica Borkh (varietà mela Verdacchia) sono state valutate in un modello in vitro realizzato co-coltivando cellule epiteliali intestinali (Caco-2) e cellule immunocompetenti (monociti THP-1 differenziati). In particolare, le cellule intestinali sono state coltivate sul filtro di una piastra transwell mentre le THP-1 sono state aggiunte in sospensione nel compartimento basolaterale sotto il filtro consentendo il cross-talk tra le due linee cellulari. La purea di mela Verdacchia (in soluzione 1:1 con bicarbonato NAHCO3) è stata applicata per 24h a livello apicale direttamente in miscela 1:1 con medium di coltura sulle Caco-2 che, rilasciando mediatori antinfiammatori nel terreno di coltura, hanno attivato indirettamente le cellule immunocompetenti sottostanti. I dati di espressione genica hanno mostrato che il trattamento con Malus domestica Borkh induce nelle THP-1 una sovra-espressione sia di IL-10 (1,9 volte maggiore), interleuchina con proprietà antinfiammatorie, che di CD14 (2,3 volte maggiore), un marcatore della differenziazione delle cellule immunitarie, rispetto al modello di co-coltura non trattato. Questi dati suggeriscono un’attività immuno-modulatoria del frutto. In questo studio è stata dimostrata anche un’attività anti-infiammatoria della mela: riduzione dell’espressione del TNF-a rispetto al modello infiammato con IL1β, di circa 4 volte ed il recupero dell’integrità funzionale della barriera intestinale misurata come resistenza elettrica transepiteliale (TEER).
E’ stato ulteriormente confermato un meccanismo d’azione anti-infiammatorio in un diverso saggio basato sulla valutazione dell’adesione dei monociti alle cellule epiteliali intestinali correlata all’attivazione di una risposta infiammatoria: il trattamento con la Malus domestica Borkh (varietà mela Verdacchia) ha indotto una significativa riduzione dell’adesione delle cellule immunitarie alle cellule intestinali rispetto al controllo positivo.
Alimentarsi con frutta ad elevato valore biologico: effetti sulla salute
Acquisita la conferma che la disponibilità di polifenoli dalla frutta dipenda dalla combinazione di fattori genetici (la varietà, locale o migliorata), geografico-climatici e di cura colturale, e in assenza di indicazioni delle Società scientifiche di nutrizione sulle dosi giornaliere consigliate, è possibile riferirsi alle tendenze di consumo di polifenoli della frutta per dimensionare la sensibilità alla promessa di salute di questi bioattivi: i dati 2001-2002 della National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) riportano in 12,5 mg/die l’assunzione media di antocianine negli USA (10 volte più della Vitamina C). Il 22% dei polifenoli della frutta consumati negli USA deriva dalle mele, la fonte più importante quantitativamente.
Le sostanze dannose determinate dagli stili di vita inducono infiammazione e produzione di radicali liberi, molecole instabili che aggrediscono con meccanismi di ossidazione le strutture cellulari ed in particolare il DNA, causando danni al patrimonio genetico.
E’ noto che i tumori sono determinati dall’interazione tra suscettibilità genetica, presente solo in parte alla nascita (5-10%), e fattori ambientali. Questi fattori sono da soli responsabili del 70% di tutti i tumori (soprattutto dei più gravi, come il cancro del polmone e dell’apparato digerente), ma anche di malattie cardio-vascolari e dell’invecchiamento e sono legati agli stili di vita: l’abitudine al fumo, la dieta scorretta, l’alcool e la sedentarietà. Tra i fattori ambientali si annoverano anche l’occupazione lavorativa (con esposizione a sostanze tossiche), i fattori geofisici come il gas radon, le infezioni e l’inquinamento atmosferico. (Mario Cristofolini, coordinatore nazionale prevenzione del melanoma LILT “La mela nella prevenzione dei tumori”, 2007)
I polifenoli sono in grado di neutralizzare gli effetti dei radicali liberi grazie alla loro capacità di renderli stabili, con conseguenze favorevoli sui processi degenerativi delle cellule. I polifenoli contribuiscono inoltre a favorire l’apoptosi delle cellule tumorali.
Le ricerche più frequenti in ambito di lotta ai tumori, come riportato nella pubblicazione del Dr. M. Cristofolini, riguardano colture cellulari da tumori umani, quali adenoma e carcinoma del colon, cancro del fegato, leucemia, melanoma. Lo sviluppo di cellule tumorali in coltura viene ridotto rispettivamente di circa il 40-60% aggiungendo il frutto intero, del 30-40% aggiungendo solo la polpa.
In un articolo comparso sulla rivista Annals of Oncology (“Does an apple a day keeps the oncologist away?”, 2005, 16: 1841-1844), basato sulla ricerca condotta dai principali Istituti Tumori nazionali, AIRC e Istituto M. Negri sui dati relativi a 8.2019 pazienti oncologici con varie localizzazioni di tumori, confrontati con 6.729 pazienti ospedalieri ricoverati per patologie acute non neoplastiche, viene riferito che il rischio di tumori nei consumatori di mele risultava diminuito del 21% per il cavo orale, del 25% per il tratto esofageo, del 20% per il colon retto, del 18% per la mammella, del 15% per la localizzazione ovarica e del 9% per la prostata. Sempre secondo la ricerca, da 2 a 4 tumori del tratto digerente su 10 sarebbero riconducibili ad uno scarso consumo di frutta e verdura. La sola aggiunta di una porzione di frutta alla dieta abituale equivarrebbe a ridurre di circa il 20% il rischio di contrarre tumore.
Acquistare mele in sicurezza
I polifenoli, metaboliti secondari prodotti dalle piante come strumento di difesa da aggressioni parassitarie e predatorie esterne, hanno diffusione prevalente nella buccia dei frutti. La stessa buccia che si offre alla nostra alimentazione come prezioso scrigno di fitonutrienti benefici per la salute, è però in grado di assorbire i pesticidi comunemente – e nel caso della melicoltura, abbondantemente – impiegati nelle pratiche di agricoltura convenzionale.
Le coltivazioni di meli sono soggette a una grande varietà di malattie indotte da microorganismi, funghi e parassiti, la cui proliferazione è spesso esaltata da fattori ambientali particolarmente avversi o compromessi, come riportato ampiamente in letteratura (FSA 2006; Pech&Mervin 2009).
La mela è prodotto di particolare valore economico, come frutto intero o trasformata in polpa, succo o estratto. L’UE realizza un sesto della produzione mondiale di mele (US Apple Association, 2011) ed oltre il 40% delle esportazioni globali (dati 2012, WAPA 2015), con l’Italia al secondo posto per volumi, dopo la Polonia.
Il riflesso più immediato della combinazione fra interesse economico e delicatezza colturale del prodotto mela è l’impiego di considerevoli quantitativi di sostanze ad attività erbicida, insetticida e fungicida (rapporto EURISTAT, 2007). I dati della sorveglianza UE sul mercato delle mele riportavano nel 2013 la presenza di ben 55 molecole ad attività pesticida in un campione di 1.610 mele: di questi, in oltre due terzi del campione erano presenti residui di più di un pesticida. L’effetto combinato delle somministrazioni di pesticidi rappresenta chiaramente e in forma documentata una minaccia per l’ambiente, a causa della dispersione in acqua e suolo, per la sopravvivenza degli imenotteri impollinatori, e una causa di malattia di lavoro per gli agricoltori (Allsopp et al., 2015) e di rischio per la salute dei consumatori.
Queste ed altre informazioni su quanto rinvenuto nel maggior distretto di melicoltura italiano sono contenute nel rapporto di Greenpeace del 2015: The bitter taste of Europe’s apple production – and how ecological solutions can bloom.
Conclusioni
“…tuttavia anche i mezzi per migliorare la natura sono forniti dalla natura stessa; sicché sopra a questo artificio che – come dite voi – prolunga la natura, sta pur sempre un’arte della natura.”
(Polissene a Perdita, Il racconto d’inverno, atto quarto, scena terza)
- Shakespeare non era certamente mosso da impeto ambientalista e non ha avuto in sorte di assistere al ricollocamento antropocentrico dell’uomo in rapporto alla natura, operato in era illuminista per affermare la posizione dominante del produttore di beni agricoli e industriali. Certamente dimostrava che appartenevano alla sua educazione i temi che da qualche decennio sono stati sottratti alla capacità di autodisciplina della collettività e iscritti nella categoria del conflitto fra interessi economici e tutela della salute.
E’ però oggi possibile, se non certo, che l’intervento del normatore e la dotazione sempre più raffinata di strumenti di studio e indagine applicati agli alimenti più comuni della nostra dieta possano fornire assistenza e indirizzo a scelte imprenditoriali agricole con una visione di più ampio respiro, promuovere rapporti con il mondo rurale e con l’ambiente sulla base di evidenze scientifiche, incoraggiare consumi responsabili, sostenere la ricerca di equilibrio fra alimentazione, ambiente e salute.
Marco Di Fulvio a partire dal 1984 è partner di primaria società di consulenza, con responsabilità di project manager per lo sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie nel settore chimico-farmaceutico e per l’internazionalizzazione delle attività aziendali. E’ titolare di brevetti di formulazioni, metodi di somministrazione e complessi chimici per la realizzazione di prodotti di auto-cura derivati da estratti botanici.
Nel 2012 avvia un progetto di recupero di biodiversità frutticola nella sua proprietà agricola di oltre 4 ettari, situata a Soriano nel Cimino con lo scopo di caratterizzare e diffondere la coltivazione di varietà appenniniche di mele tradizionali.
Nel 2014 fonda l’Associazione di agricoltura sociale O.R.T.O. (Organizzazione Recupero Territorio e Ortofrutticole), destinata al recupero di persone a bassa contrattualità sociale con il lavoro multifunzionale in agricoltura.