di Luigi Rossi
Con questo articolo Luigi Rossi e AgronomiperlaTerrA vogliono ricordare il lungo lavoro iniziato dal grande genetista agrario, scomparso nel 2011, Gian Tommaso Scarascia Mugnozza al Centro Ricerche ENEA della Casaccia negli anni ’50.
NOTE TECNICHE DEL CRESO (Fonte ENEA)
Il “Creso” è una varietà di frumento ottenuta presso i laboratori ENEA del centro ricerche Casaccia nei primi anni ‘70. Rappresenta un vero fiore all’occhiello per l’ENEA, in quanto questo brevetto, depositato nel 1975, vanta ben 4 record nel settore:
- è un brevetto ancora in vigore, a distanza di 35 anni dal deposito
- ha avuto un’ampia diffusione, tale che negli anni ‘80 e ’90 ha rappresentato oltre il 50% della produzione di frumento duro in Italia
- è stato il primo importante risultato della ricerca genetica ENEA applicata al miglioramento produttivo di un cereale di base
- dal 1975 ad oggi, con le royalties ha reso all’Ente 1 milione 678 mila euro ( 3 miliardi 239 milioni di lire)
La sua principale caratteristica è quella di avere una taglia ridotta (70‐80 centimetri) rispetto ai frumenti duri fino ad allora coltivati (130‐150 cm), che ha reso la varietà molto resistente all’allettamento.
Inoltre, il Creso ha una buona resistenza alle malattie ed una risposta produttiva elevata, quasi doppia rispetto alle varietà precedenti.
L’azione mutagenica dei raggi x era stata scoperta negli anni 1927 e 1928 e una folta schiera di genetisti aveva studiato l’effetto mutagenico di agenti fisici e, successivamente, anche chimici, su diversi organismi mutanti, tra cui molte piante superiori. E’ risultata chiara molto presto la possibilità di indurre, anche in queste ultime, modificazioni ereditarie del patrimonio genetico e di ottenere in tal modo un ampliamento talvolta prezioso della variabilità già esistente in natura in virtù dei processi di mutazione spontanea, ibridazione e ricombinazione. Furono così considerati gli aspetti e le possibilità di effettiva utilizzazione della mutagenesi nel miglioramento genetico. (D. Bagnara, Genetica Agraria, 1971).
Negli anni ’50 e ’60 molti esperimenti furono condotti in molti Paesi per individuare i mutageni più efficaci ed efficienti. Nel Centro Ricerche della Casaccia fin dal 1958 si erano sviluppati studi per l’acquisizione di conoscenze sugli effetti delle radiazioni sulle piante ai vari livelli: dal morfologico al cromosomico, dal genetico al biochimico; e si erano pertanto sviluppate competenze di radiobiologia, radiogenetica, mutagenesi e genetica agraria. Gli studi erano iniziati su grano duro e grano tenero, estesi poi ad orzo, pisello, pomodoro, peperone, pesco, ciliegio, olivo, vite, agrumi, piante da fiore, ecc. Nel caso del grano duro si osservò l’alta frequenza di mutazioni clorofilliane a seguito di trattamento con neutroni e con EMS (Etil-metil-sulfonato) e l’alta frequenza di mutanti morfologici indotta da neutroni veloci e termici a seconda delle varietà utilizzate. Si affermò tuttavia che ogni generalizzazione appariva difficoltosa e incauta, essendo evidente la diversità di risultati a seconda del tipo di mutazione considerato e del genotipo sottoposto a trattamento, pur considerando cultivar nell’ambito dello stesso livello di ploidia e probabilmente diploidizzate in eguale misura. I trattamenti mutageni possono essere applicati all’intera pianta o a parti ben definite di essa, così come a cellule e tessuti in colture in vitro. Grande è tuttavia la differenza tra le parti di una stessa pianta sia per la maggiore o minore difficoltà di trattamento, sia per quanto concerne la radiosensibilità di tessuti e organi.
Il trattamento all’intera pianta veniva eseguito nel Campo gamma. Una vasta area circolare, circondata da un argine di protezione, con al centro una sorgente di Cobalto 60 normalmente interrata. Per effettuare gli irraggiamenti la sorgente veniva alzata, ovviamente a distanza, e le radiazioni si diffondevano orizzontalmente su tutto il campo gamma, nel quale erano collocate le varie piante da irraggiare, con dosi di radiazioni programmate sulla base della distanza dalla sorgente e del tempo di irraggiamento. Il trattamento del polline, dei gameti e zigoti, cioè di stadi unicellulari, presenta vantaggi analoghi, cioè la possibilità di ottenere piante mutate non chimeriche, ossia con settori mutati e altri non mutati.
Il miglioramento genetico del grano duro
La scelta del grano duro non era stata casuale. Particolare impegno fu dedicato a tale specie per una duplice motivazione: una di carattere scientifico, in quanto pianta poliploide e quindi interessante per studi di mutagenesi; l’altra di carattere pratico, in quanto pianta mediterranea, fino a quel momento trascurata dal miglioramento genetico.
Negli anni 1965-70 il fabbisogno annuo di grano duro nei Paesi della CEE di allora, si aggirava sui 40 milioni di quintali. Il 50% di tale fabbisogno era soddisfatto con la produzione interna, il 30% importato soprattutto da Canada, USA e Argentina, il 20% costituito da granito di frumento tenero. La produzione italiana era intorno ai 17 milioni di quintali, con una produttività media di 12 quintali per ettaro. Le previsioni indicavano per il 1975 un fabbisogno per la CEE di 50 milioni di quintali. La produzione interna veniva pertanto incentivata con una integrazione significativa. Il prezzo del grano duro pagato all’agricoltore era di circa 10.000 lire al quintale (lire 6.900 + lire 2172 di integrazione) contro le 7.000 lire al quintale del grano tenero.
La coltivazione di tale grano in Italia era limitata sostanzialmente alle aree meridionali, in particolare Sicilia e Puglie, ed era sinonimo di ambiente agro-pedo-climatico povero, produttività bassa con forti oscillazioni annuali. Le sementi utilizzate dagli agricoltori per oltre il 90% non erano certificate.
Fino agli anni ’60 tutte le varietà di grano duro erano caratterizzate da una taglia molto alta, 140-180 cm, che le rendeva fortemente soggette agli allettamenti, cioè al ripiegamento della pianta fino a terra, che arrecava gravissimi danni alla coltura, sia in termini quantitativi che qualitativi.
Per superare tale grave problema, che non consentiva di adottare alcuna innovazione (l’uso dei fertilizzanti azotati aumentava notevolmente il rischio di allettamento!), si erano ricercate possibili fonti genetiche di bassa taglia nelle varie collezioni mondiali, oppure tentato di abbassare la taglia delle singole varietà incrociandole con quelle di grano tenero, con una riduzione della qualità pastificatoria.
Con la mutagenesi fu possibile selezionare molti mutanti a taglia bassa e con caratteristiche agronomiche assai positive. Alcuni furono iscritti nel Registro Nazionale delle Varietà:
Castelfusano e Castelporziano, entrambi selezionati tra i mutanti del Cappelli, furono iscritti nel 1969. Essi rappresentano le prime varietà di grano duro a taglia significativamente ridotta ad essere coltivati, ed erano resistenti all’allettamento e consentivano anche di applicare con successo le concimazioni azotate. Furono i primi grani duri ad essere coltivati anche nei terreni fertili.
Per migliorare le caratteristiche dei mutanti e per trasferire i “caratteri mutati” in nuove varietà, fu realizzato un ampio programma di incroci, con successive selezioni genetiche per caratteristiche di interesse agronomico (resistenza all’allettamento, precocità, resistenza alle malattie, produttività) e per caratteristiche qualitative della granella (peso ettolitrico, proteine, capacita pastificatoria).
Il Creso: un esempio di innovazione nel sistema agroalimentare
Tra le nuove linee selezionate apparve subito emergere la linea FB55, con piante basse e vigorose, spighe molto fertili, resistente alle malattie e in particolare alle ruggini. Fu iscritta con il nome Creso. Selezionata nei laboratori del Centro della Casaccia da un incrocio fra un grano mutante (B144) radio indotto dal Cappelli e una linea del Centro Internacional de Mejoramento de Maize & Trigo, si rivelò ben presto di grande interesse agronomico e industriale per l’elevata produttività in campo e la buona qualità di pastificazione.
Iscritta nel 1974 nel Registro Nazionale delle varietà di grano duro, in pochi anni diventò la varietà più coltivata in Italia (già nel 1982 rappresentava il 60% della semente di grano duro certificata) facendo raddoppiare la produzione italiana di grano duro a parità di superficie. La varietà incontrò subito il favore degli agricoltori più preparati che, impiegando moderne tecniche agronomiche di coltivazione, raggiunsero in Italia Centrale produzioni uguali o superiori a quelle del frumento tenero. L’agricoltore fu favorevolmente impressionato dall’aspetto della granella di Creso, dalla adattabilità di tale varietà e dalla positiva risposta ad ogni miglioramento della tecnica colturale.
Le industrie di trasformazione (mugnai e pastai) accettarono e apprezzarono la qualità tecnologica del prodotto che risultò assai elevata sia per le caratteristiche genetiche sia per le migliorate tecniche colturali. Il Creso si diffuse rapidamente in tutta l’Italia Centrale (Lazio, Toscana e Marche in particolare), nelle zone Adriatiche del Nord a clima non rigidamente continentale e nel Mezzogiorno. Secondo i dati Istat, la superficie coltivata a Creso è passata da poche decine di ettari nel 1973 a 77.000 ettari nel 1976, a oltre 400.000 ha nel 1982. Nel 1983 il Creso era coltivato su 26.971 ha in Emilia Romagna, 31.573 ha in Toscana, 81.782 ha nelle Marche, 46.538 ha nel Lazio, 38.754 nelle Puglie, 22.900 ha in Basilicata, 22.118 in Calabria, 60.000 ha in Sicilia, 9.739 ha in Sardegna, 9.299 ha in Campania, 16.300 ha in Molise, 11.949 ha in Abruzzi, 3.810 in Umbria, 755 ha in Veneto, 788 ha in Lombardia, e anche 8 ha in Friuli Venezia Giulia.
Per meglio comprendere la rapida ed eccezionale diffusione del Creso si può evidenziare che tale varietà, iscritta nel 1974, aveva già raggiunto nel 1984 il 58,3 % di tutto il seme certificato di grano duro in Italia. E’ importante sottolineare che mentre all’inizio degli anni ’70 la percentuale di seme certificato, sul totale di quello impiegato per la semina, non superava il 15%, nel 1983 tale percentuale raggiungeva il 29%. Una eccezionale azione di promozione sul settore sementiero era stata pertanto esercitata dal Creso che nel 1983 registrava un quantitativo di ben 578.613 quintali di semente certificata dall’ENSE (Ente Nazionale Sementi Elette).
La promozione del settore sementiero è la chiave di volta per il passaggio da una coltura povera e primitiva a una coltura ricca e moderna ed è espressione di un sistema produttivo efficiente e capace di gestire anche altre innovazioni genetiche.
L’utilizzo della varietà Creso, accompagnato da una sempre più appropriata tecnica colturale, ha significato per l’agricoltore evidenti benefici economici in qualche modo calcolabili. Non è certo facile valutare l’impatto di una innovazione, specialmente se agronomica, in termini economici. Tuttavia il contributo dovuto all’ introduzione di una nuova varietà risulta forse più chiaramente definibile di quello di altri fattori (fertilizzanti, erbicidi, fitofarmaci, lavorazione del terreno). Ciò anche perché, una volta nota le superfici coperte, le produzioni ottenute e il prezzo del prodotto finito, le conclusioni sono rapportabili a semplici operazioni aritmetiche. Da uno studio effettuato
dall’ ENEA sulla base di dati ufficiali, pubblicati da organismi preposti al rilevamento (ISTAT e IRVAM) e sulla base di dati forniti da industrie sementiere si constata che dal 1973 al 1982 , in soli dieci anni, il grano Creso passa in percentuale da 0% a oltre il 25% di tutta la superficie a grano duro in Italia.
La produzione totale ha raggiunto nel 1983 circa 15 milioni di quintali. Il valore in moneta corrente ha superato i 500 miliardi di lire nel 1982 e i 600 miliardi nel 1983. La stima dell’ incremento di produzione dovuta alle intrinseche caratteristiche di maggior produttività del Creso rispetto alle varietà preesistenti, è passata dai 600 mila quintali del 1976 ai 3,7 milioni di quintali del 1984.
Poiché il Creso ha sostituito il grano tenero in molte aree del centro nord, l’incremento globale in produzione nazionale di frumento duro è stato ben maggiore e tale da annullare, a quel tempo, il grosso deficit dell’Italia per tale prodotto. Complessivamente gli agricoltori italiani hanno prodotto nei primi dieci anni di diffusione circa 100 milioni di quintali di granella di Creso. L’incremento in produzione lorda vendibile supera nel 1982 e 1983 i cento miliardi annui.
L’ENEA quale Ente costitutore della suddetta varietà, incassa le “royalties” dalle industrie sementiere concessionarie; nel 1983 tale introito è stato di 130 milioni di lire. Fino al 1982 l’ Enea ha incassato complessivamente 180 milioni di lire di “royalties”. Si tratta di una cifra significativa, pure irrisoria rispetto sia al quantitativo certificato e commercializzato (578.613 quintali nel solo 1983), sia ai benefici economici diretti e indiretti determinati in Italia.
Se il Creso è avvantaggiato dall’ adozione di moderne tecniche agronomiche, si può altresì aggiungere che esso ha agito come veicolo di promozione tecnologica (e non solo tecnologica) presso le aziende agrarie, le Società sementiere e le industrie di trasformazione. In quegli anni, nei Paesi della CEE la produzione di grano duro si aggirava sui 45 milioni di quintali con una punta di 60 milioni nel 1984. In tale anno le favorevoli condizioni climatiche determinarono una produzione eccezionale anche in Italia (46 milioni di quintali).
Si può pertanto affermare che il Creso rappresenta il frutto di una intima connessione tra ricerca scientifica e apparato produttivo. Stimolata da quest’ultima, infatti, l’innovazione si è realizzata per merito delle ricerche in un Centro di alto livello scientifico.
Grazie al fenomeno Creso si è potuto provare come l’innovazione genetica costituisca un fattore estremamente importante di sviluppo e promozione del sistema agro-industriale, il quale ha dimostrato in tale occasione buone capacità di gestire l’innovazione quando essa è valida e richiesta dal mercato, pur in presenza di carenze strutturali e organizzative. Di queste, anzi, l’ innovazione può funzionare da “sistema di rilevamento”, ma può anche, come sperabile, suggerire le vie e le azioni più idonee al loro superamento. (L. Rossi, Un esempio di innovazione in agricoltura: il grano Creso. Riv. Energia e Innovazione. ENEA, 1984).
Ancora oggi, dopo oltre 30 anni dalla sua registrazione, il Creso è coltivato nel nostro Paese su un’area superiore al 20% della superficie totale a grano duro. Il Creso è stato utilizzato nei programmi di miglioramento genetico del grano duro anche in molti Paesi, dalla Cina all’Australia, all’Argentina, agli USA, al Canada e presso i grandi Centri di Ricerca Internazionali (CIMMYT, ICARDA, CSIRO,ecc..). E’ impossibile enumerare tutte le varietà di grano duro che sono derivatedal Creso; è certo che buona parte della relativa produzione mondiale è ottenuta con varietà da esso derivate.
Conclusioni
La varietà Creso è stata determinante per una vera e propria rivoluzione cerealicola in Italia. Ha fatto crescere tutta la coltura del grano duro: da sinonimo di povertà economica, agronomica, varietale, quella del grano duro è diventata una coltura ad alta tecnologia: seme certificato, tecniche agronomiche accurate; l’industria molitoria e quella pastaria sono diventate le prime del mondo.
La tecnologia, sempre più sviluppata e ampliata, ha richiamato nuova tecnologia, inclusa quella organizzativa, determinando il successo di una coltura, di una filiera, di una economia. E la pasta è rimasta un prodotto tipico, anzi si è affermata come prodotto tipico, piatto tipico italiano. Senza la ricerca e l’innovazione, la competitività del grano duro nei confronti di quello tenero sarebbe venuta meno. E anche il prodotto tipico pasta di solo grano duro, sarebbe rimasto una nicchia nel mercato globale.
Il Creso ha dimostrato che anche i prodotti tipici si avvalgono con successo del contributo della ricerca e dell’innovazione. L’Italia è un grande mercato di tecnologie, in gran parte importate. Sui prodotti tipici dobbiamo sviluppare ricerca e innovazione tecnologica; non possiamo illuderci di acquistare fuori le tecnologie adatte a dare competitività ai prodotti del nostro Paese.
A fronte dei vantaggi ottenuti dalla varietà Creso occorre considerare che essa, come tutte quelle a taglia bassa ed alta produttività, richiede diserbanti, concimi chimici, tecniche colturali moderne, e rappresenta un esempio di forte intensificazione colturale: il Creso è paragonabile ad una Ferrari che per esprimersi in tutta la sua potenzialità richiede una pista di Formula Uno. In un virtuale confronto la tradizionale varietà Cappelli, da cui il Creso è derivato, è paragonabile ad una jeep che può viaggiare su strade di ogni genere.
Il caso del grano, il cui miglioramento è stato avviato sulla base di una concezione technology intensive, ci fa rendere conto come, anche in relazione alle problematiche ambientali, si sia resa necessaria una evoluzione verso una concezione di tipo knowledge intensive, comprensiva di molti altri aspetti, oltre a quello agronomico.
All’agricoltura oggi si richiede di soddisfare le esigenze alimentari primarie, di accontentare le sempre crescenti e diversificate aspettative del moderno consumatore, di adottare le più avanzate tecnologie e di garantire, nel contempo, la sostenibilità ambientale, nonchè di essere competitiva sul mercato globale! A chi opera in agricoltura si chiede una responsabilità specifica riguardo alla produzione e alla fornitura di cibo sano e di qualità, la salute e il benessere di uomini e animali, la conservazione della natura e delle risorse naturali primarie (acqua, suolo, risorsa biologica). La scienza e la saggezza devono essere il supporto dello sviluppo di tutto ciò, per soddisfare il fabbisogno di cibo delle generazioni presenti e future.
E la mutagenesi? La tradizionale mutagenesi, in cui vengono indotte mutazioni in modo casuale, ha consentito di ampliare la biodiversità naturale, di accumulare una serie di dati utili per conoscere la genetica delle piante e la loro naturale evoluzione. Essa ha portato alla costituzione di almeno 2000 varietà coltivate nel mondo. Tale mutagenesi è tuttora riconosciuta come strumento prezioso per aumentare la variabilità genetica di una specie e per conseguire specifici obiettivi di miglioramento genetico.
Con le nuove tecniche di biologia molecolare, già dal 1978, è stato possibile “creare” una mutazione in modo selettivo, in un particolare sito di una molecola di DNA, solitamente un plasmide. Questa tecnica, denominata di mutagenesi sito diretta, ha acquistato un ruolo di tale importanza nella biologia molecolare e nella biochimica che Michael Smith, il suo ideatore, divise il premio Nobel per la chimica nell’ottobre 1993 con Kary B. Mullis, l’inventore della PCR (Polymerase Chain Reaction). Era incominciata la genomica a cui si sono poi affiancate le altre scienze omiche!
Luigi Rossi, laurea in Scienze Agrarie. Ricercatore – genetista agrario presso il Centro Ricerche Casaccia del CNEN (poi ENEA); costitutore di varietà di grano e dei primi Triticali italiani Mizar e Rigel. In ENEA ha diretto le ricerche e lo sviluppo di tecnologie nei settori delle biotecnologie avanzate, del miglioramento genetico delle piante agrarie, del sistema agroindustriale, della sicurezza alimentare e ambientale, della gestione sostenibile degli agro-ecosistemi. Consulente FAO e di altri Organismi Internazionali. Co-chairman della Piattaforma tecnologica Food for Life. Valutatore di Progetti. Presidente della FIDAF (Federazione Italiana Dottori in Scienze Agrarie e Forestali).
Come si fa il Pane |