di C.Maurizio Scotti
Ci si aspettava che a partire dal nuovo millennio l’agricoltura potesse e volesse contribuire al fabbisogno energetico con coltivazioni ed impianti ad hoc, quali le centrali a sorgo o lo sviluppo tecnologico, e su larga scala, dei termoimpianti a biomasse, ed invece tanta attesa è stata pressocò inutile. Non solo in Italia, o in Europa, ma in quasi tutto il mondo la produzione agricola a scopo energetico è scemata, rimanendo nel computo delle fonti primarie allo zero virgola percentuale. Infatti, se si eccettuano gli impianti per la produzione di idrogeno dalla canna da zucchero in Brasile e quelli termoelettrici dell’Indonesia, che utilizzano scarto forestale del Borneo, nessun Paese risponde al proprio fabbisogno energetico con almeno il 15% da materia prima agricola, come invece era stato ipotizzato in sede internazionale sul finire degli Ottanta, quando già si paventava la riduzione del mercato delle saccarifere. Si disse (e si scrisse molto, anche in Italia), allora, che il futuro della melassa sarebbe stato nella sintesi dei biocarburanti: una tecnologia che risaliva alla fine degli Anni Trenta e che con la necessarie migliorie avrebbe cambiato la faccia del mondo agricolo. Ad inizio Duemila si progettarono anche trasformazioni di impianti saccariferi in centrali elettriche, cambiando di fatto le produzioni agricole di interi territori (ad esempio pianura dell’Oltrepo Pavese e del basso Piemonte). Si disse anche che la viticoltura sarebbe entrata nel gioco energetico, contribuendo a dare alternative sia alle sovrapproduzioni che all’alienazione delle potature, cosa che avrebbe permesso maggiori introiti per unità di fondo. Non da ultimo, in zone svantaggiate, sarebbe stata privilegiata la coltivazione arborea rapida, da destinare a trinciato da miscelare con lolla di riso e paglie di granaglia per il funzionamento in continuo di centrali a biomasse.
Si arrivò persino ad ipotizzare la coltivazione su larga scala di mais e sorgo per produrre gasolio ecologico (biodiesel, era diventata una parola magica) o benzine ad alto contenuto di ottani, come quelle avio. Furono fatti grandi studi di fattibilità e una ventina di Atenei italiani iniziarono a promuovere ricerche sia di mercato sia di processi produttivi. E questo costò parecchie decine di miliardi di vecchie lire.
Tutto il “sistema” si basava su tre presupposti, che erano diventati veri e propri postulati comunemente accettati:
I combustibili fossili sarebbero andati in esaurimento, con l’inizio della curva sfavorevole già a partire dal 2020
Il disfacimento dell’Urss e il quasi contemporaneo impegno militare occidentale in Iraq, in aggiunta all’emergere del nazionalismo in quella che era la Jugoslavia, avrebbero modificato drasticamente il panorama geopolitico, con conseguenze pesanti negli approvvigionamenti e nel prezzo di petrolio e gas naturale
Le esigenze energetiche non si sarebbero mai più disgiunte da quelle della necessaria riduzione del surriscaldamento terrestre, stabilendo principi secondo cui l’aumento della temperatura del Pianeta avrebbe dovuto essere mantenuta entro limiti precisi e insuperabili; così sarebbe stato per le emissioni di gas serra, per l’inquinamento da polveri sottili, per l’uso di aerosol e via dicendo
Dando per scontati questi postulati, soprattutto in Occidente iniziò ad attuarsi un discorso di “vivibilità” che comprendeva misurazioni, osservazioni, analisi e conseguenti limitazioni a emissioni cosiddette inquinanti, qualunque sia la loro origine e qualunque possa essere stato il comunque beneficio (ad esempio, l’uso della propria automobile in un contesto cittadino qualunque sia l’adeguamento antinquinamento, il riscaldamento pubblico e domestico).
Ma il punto su cui maggiormente si dibatteva era riferito all’agricoltura, alla sua capacità di sopperire ai fabbisogni con produzioni “rinnovabili” ed energeticamente valide. Si stimava che entro il 2015, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Canada, Usa, Australia e Sud Africa avrebbero raggiunto una capacità energetica da fonti agricole pari al 18% del proprio fabbisogno; per l’Italia si ipotizzava il traguardo del 12%, mentre per Germania e Paesi Bassi (che avevano già spinto sui termovalorizzatori) il dato si fermava attorno al 6%. Ma queste erano “grandi cifre” e se prese in valore assoluto rappresentavano di per sé uno sviluppo agroeconomico da capogiro. Una specie di rivoluzione industriale su base agricola: questo sembrava dover essere l’allora futuro imminente nonché nostro presente.
Ebbene? I postulati sono andati a farsi benedire e come la mela caduta sulla testa di Newton ci si è accorti che la gravità delle cose non è entrata sufficientemente in tutte le case. Soprattutto nei cortili di chi è chiamato a governare la nave Terra.
I prezzi del petrolio e del metano sono e restano bassi; in Oriente e in Africa si continuano le perforazioni con licenze economicamente irrisorie. In Siberia si pompa tanto di quel gas che in Olanda e in Italia finisce con l’essere stoccato nel sottosuolo, tanto si compra e tanto non serve; in quello che tanti pensano come Kurdistan si porta a casa petrolio di qualità a costi stracciati, alla faccia della guerra all’Isis e delle diatribe con Teheran. Negli Usa, Trump riapre al carbone e così ormai pensa di fare anche la Gran Bretagna (ma anche la Polonia). La Cina, per consolidare l’idroelettrico, allaga intere regioni e toglie acqua a milioni di ettari di aree agricole. In America Latina, la coltura della canna da zucchero è entrata in una fase critica, soprattutto in Bolivia e Paraguay, per via dei prezzi sempre minori con cui il Venezuela inonda il continente di petrolio. Poi c’è sia la questione dell’eolico che quella del fotovoltaico, che occupa ampi spazi con impatti non sempre ottimali e rendimenti non certo esaltanti, non solo in Italia (Giappone, Portogallo, Norvegia, Messico e Irlanda fanno addirittura peggio).
Gli oceani sono diventati altri luoghi fertili per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi fossili, con conseguenze importanti anche sugli effetti climatici di molte zone remote del Pianeta.
E l’agricoltura, l’attività umana che avrebbe dovuto salvare il salvabile e introdurre nuove frontiere allo sviluppo economico nonché al progresso dell’umanità? L’agricoltura è rimasta a guardare, prima di tutto se stessa e poi l’indecisione palesata a tutti i livelli di potere, con perdite di valore continuo, alienazioni e dissuasioni su iniziative e, in modo particolare, prospettive.
Le occasioni ci sono state, ma nessuno le ha volute accogliere soprattutto perché la logica attuale è legata indissolubilmente alle metropoli; logica economica e sociale camminano nell’esperienza della densità umana non delle piante o del seminato. L’umano è colui che abita e consuma, colui che circoscrive gli eventi prima ancora di realizzarli o di constatarli: la calamità è innaturale, per forza.
Ecco perché l’agroenergia è finita il fondo al cassetto dove si trovano le cose indiscusse: perché è palese che ciò che non ha motivo di essere non può avere logica di esistere fintanto che c’è altro in cui “scavare”. E ricavare.
Ex zuccherificio di Sarmato (foto La Libertà)
Pale eoliche in Daunia
Autore: C.Maurizio Scotti.
17/10/2017