di Luca Poli
Il legno risulta senza dubbio un materiale capace, in presenza di determinate condizioni, di bruciare; questa caratteristica è tanto determinante per una sua valorizzazione come combustibile sotto diverse forme, quanto lo è scarsamente per un suo impiego a fini strutturali in settori come l’edilizia.
Il legno utilizzato per la produzione di energia generalmente è neutro nei confronti delle emissioni ambientali. Ovvero tanta CO2 emette quanta ne ha fissata la pianta, ma al netto dell’energia consumata per le utilizzazioni forestali e la produzione. Più sono articolate le lavorazioni dei prodotti legnosi e maggiori sono le emissioni ambientali (andando dalla legna da ardere allo stato grezzo, al legno cippato, ai bricchetti e ai pellets). In certi casi tali emissioni non vengono conteggiate o vengono conteggiate solo per la parte specifica se i prodotti sono sottoprodotti di qualcos’altro (prodotto primario). Di certo, tutti i combustibili legnosi, quando a monte vi è una gestione forestale sostenibile, sono nettamente da preferire, da un punto di vista ambientale, a qualsiasi altro combustibile di origine fossile.
Riguardo l’utilizzo dei combustibili a base di materiale legnoso, così come per le biomasse in genere, è possibile elencare degli argomenti a favore e degli argomenti contro. Tra i vantaggi riportiamo:
- Sono una fonte di energia rinnovabile;
- Possono essere immagazzinati e/o stoccati;
- Non emettono emissioni (nette) di CO2;
- Creano posti di lavoro sul territorio;
- Permettono il mantenimento del paesaggio e degli ambienti rurali;
- Se associati ad una gestione forestale sostenibile, sono fonte di mantenimento dei boschi.
Tra gli svantaggi invece si riporta:
- Contenuto di umidità molto variabile;
- Problemi di trasporto, stoccaggio e movimentazione a causa della bassa densità;
- Produzione soggetta a variazioni delle condizioni ambientali e metereologiche;
- Produzione non costante durante l’anno;
- Sistema di gestione (logistica) complesso per assicurare la costante fornitura della risorsa.
Caratteristiche del legno per scopi energetici
Tra le caratteristiche del legno che maggiormente vengono considerate per valutare l’attitudine all’utilizzo in un processo di combustione si ritrova primariamente il potere calorifico, che viene suddiviso in inferiore e superiore. Il potere calorifico inferiore è definito come la quantità di calore sviluppato nella combustione completa a pressione costante (atmosferica) della quantità di 1 kg di combustibile legnoso, trascurando il calore che rimane nell’acqua evaporata, ovvero considerando quest’ultima allo stato di vapore. Il potere calorifico superiore, invece, è definito come la quantità di calore sviluppato nella combustione completa a pressione costante (atmosferica) della quantità di 1 kg di combustibile legnoso considerando pure il calore contenuto nell’acqua evaporata conteggiata tramite condensazione, ovvero allo stato liquido (t 15 C°). Il potere calorifico si esprime in J/Kg, KJ/Kg o MJ/Kg.
Il potere calorifico superiore, ovvero quello del legno allo stato anidro, presenta differenze a seconda delle specie considerate, che comunque non superano mai il 15%; in linea di massima il legno di conifere si assesta intorno a 19,7 MJ/Kg, pari a circa 4700 Kcal/Kg, mentre il legno di latifoglie risulta possedere 18,2 MJ/Kg, pari a circa 4350 Kcal/Kg. Un valore medio generalmente indicativo risulta essere 18,9 MJ/Kg.
Un parametro di notevole importanza per la valutazione della biomassa legnosa risulta senza dubbio essere il suo contenuto in umidità. La quantità di acqua presente nel legno, espressa come umidità percentuale in riferimento alla massa umida, ha effetto sul potere calorifico sia perché, a parità di peso, più umido è il legno e minore è il quantitativo di sostanza secca a disposizione, sia perché l’acqua presente sottrae il calore per la propria evaporazione, e quindi riduce il potere calorifico inferiore.
Tipologie di materiali legnosi
L’assortimento più classico per l’utilizzo energetico, ritraibile da un bosco, risulta essere la legna da ardere. Di grandezza, detta anche pezzatura, variabile a seconda della facilità di movimentazione, della richiesta del mercato ma principalmente della tipologia di caldaia o bracere a cui è destinata; e proprio in base alla pezzatura, oltre al luogo di vendita ed alla stagione, ne viene stabilito il prezzo sul mercato: per un quintale di legna per stufe casalinghe (lunghezza 30 cm circa) vengono richiesti dai 10 euro in su, trasporto compreso.
Risulta essere il tipico assortimento ritraibile dai boschi cedui dell’Appennino, e tipicamente viene preferito il legno di specie come faggio, castagno e cerro nella fascia montana, mentre roverella e leccio nella fascia più mediterranea. Un prodotto particolare della legna da ardere è la legna di carpino che, grazie ai suoi diametri più piccoli, trova un ampio mercato come legna da pizzerie.
In linea di massima la scelta della legna da ardere deve preferire i legnami ad elevata densità (ad esempio querce, faggio, carpino, robinia) a discapito di quelli a bassa densità (ad esempio pioppi, abeti, ontani, salici); occorre inoltre evitare i legni con un’eccessiva presenza di estrattivi come i tannini.
Legna da ardere di cerro (foto Luca Poli).
L’altro assortimento ottenibile direttamente dal legno in bosco e che sta prendendo sempre più piede grazie alle sue ottime caratteristiche di versatilità e facilità di movimentazione, è il cippato di legno. Il suo nome deriva dalla lingua inglese, “Chips”, ed infatti trattasi di scaglie di legno, delle dimensioni variabili tra i 3 ed i 100 mm, con netta prevalenza della frazione intermedia, come riportato nella norma UNI EN ISO 17225-4 che ne regola la pezzatura. Si ottiene dalla lavorazione del legno tondo con apposite macchine, dette cippatrici, costituite da un tamburo rotante dotato di martelli taglienti; quest’ultimo, girando ad alte velocità, frantuma il legno che contemporaneamente viene spinto da un tappeto verso il tamburo. Viene trasformato direttamente all’imposto o su apposito piazzale, in quanto la sua lavorazione e movimentazione è legata rispettivamente alla possibilità di accesso delle macchine cippatrici e dei mezzi di trasporto. Nelle consuete lavorazioni in bosco, viene generalmente ottenuto a partire dagli scarti degli assortimenti principali, ovvero cimali e ramaglie; un suo campo di applicazione vede la trasformazione della legna da ardere in cippato, con i vantaggi di una più agevole movimentazione, una valorizzazione di specie legnose con poco mercato e l’omogeneizzazione del prodotto non avendo più distinzione tra grossi diametri e materiali sottili (compresa ramaglia verde). Di contro si presentano gli svantaggi della necessità di macchine cippatrici generalmente molto costose, della difficile conservazione nel lungo periodo con qualche rischio per fermentazione in ambiente caldo e umido ed alterazioni fungine (con conseguenti perdite di massa) ed infine, ma non meno importante, della drastica riduzione del valore per la legna da ardere di specie con un certo mercato (indicativamente da 120 – 180 a 50 euro/t).
Il cippato risulta inoltre ottenibile come sottoprodotto delle lavorazioni in segheria, attraverso macchine “Canter” che riducono il volume di legno occupato dagli sciaveri direttamente in legno cippato, lavorando in linea con la sega di testa.
Operazione di cippatura di ramaglia grossa con caricamento diretto del materiale su autoarticolato (foto Luca Poli).
Cippato di legno di pino (foto Luca Poli).
La conservazione del cippato nelle condizioni ottimali risulta molto difficile. Il legno allo stato fresco infatti è un substrato eccellente per la crescita di vari microrganismi xylofagi, funghi e batteri che si cibano di legno. Normalmente non riescono a penetrare la corteccia e raggiungono il legno solo dove questa è interrotta, spesso in corrispondenza di una ferita. Con la sminuzzatura viene prodotta un’enorme quantità di legno non protetto, moltiplicando la superficie ricettiva all’attacco dei microrganismi. Il risultato è che l’attacco microbiologico inizia nel giro di poche ore dopo che il legno è stato cippato e può andare avanti per diverse settimane, fino a che la temperatura generata dalla respirazione microbica non diventa talmente elevata da inibire un’ulteriore proliferazione dei microrganismi che ne sono la causa prima. I risultati dell’attacco microbiologico, impropriamente chiamato fermentazione, sono la perdita di una notevole quantità di sostanza secca, lo sviluppo di spore ed il rischio di autocombustione, causato da sviluppo di temperature elevate nel cumulo.
Negli ultimi anni, visto il crescente interesse per il mercato del legno a fini energetici, si sono sempre più diffusi prodotti ricavati da trucioli e segatura e destinati ad essere bruciati in caldaie e stufe domestiche. Sfruttando infatti degli scarti di lavorazione delle segherie si è reso possibile ottenere dei prodotti versatili, facilmente conservabili in quanto con bassa umidità di partenza (10-12 %) e con una buona predisposizione ad essere inseriti in impianti con caricamento automatico del combustibile. Stiamo facendo riferimento ad i bricchetti ed al pellets.
Pellets di conifera.
I primi sono prodotti a partire da trucioli e segatura, ottenuti dagli scarti di lavorazioni meccaniche come segagione, piallatura e troncatura, attraverso apposite macchine denominate bricchettatrici. Il suo processo di produzione sfrutta pressione e calore per far aderire la lignina delle varie particelle, fornendo così una consistenza modesta. I bricchetti sono impiegati in sostituzione del legno massiccio grazie alla loro elevata omogeneità ed alle grandi superfici esposte, che permettono una combustione meno variabile ed una produzione di energia termica costante. Le dimensioni dei bricchetti sono generalmente paragonabili a quelle della legna da ardere per stufe domestiche, ovvero 30 cm di lunghezza e 7-8 cm di diametro.
Un prodotto simile ma di dimensioni più piccole è il pellets, anch’esso prodotto a partire da scarti fini di segatura mediante un processo di estrusione unito a calore e forte pressione. Da un punto di vista di prezzi sul mercato, mentre i bricchetti, destinati esclusivamente ad una vendita al dettaglio, raggiungono anche 300 euro/tonnellata, i pellets variano tra 200 e 300 euro/tonnellata.
Il presupposto per l’utilizzo di questi prodotti è l’impiego di legname vergine, non trattato cioè con corrosivi, colle o vernici. La compattezza e la maneggevolezza danno a questa tipologia di combustibile caratteristiche di alto potere calorifico (p.c.i. 4.000-4.500 kcal/kg) e di affinità ad un combustibile fluido. E’ molto indicato quindi, per la sua praticità, in piccoli e medi impianti residenziali.