PASCOLO E BOSCO: UN LEGAME FONDAMENTALE PER L’ALLEVAMENTO BOVINO BRADO IN TOSCANA
di Jacopo Goracci, L. Giuliotti, N. Benvenuti, M.N. Uzielli
L’utilizzazione razionale di tutte le risorse disponibili in un’azienda agro-zootecnica risulta essenziale per la sopravvivenza stessa dell’allevamento. In tale ottica un corretto sfruttamento della realtà forestale correlata con l’attività zootecnica si rivela di grande importanza per il territorio toscano, dove razze autoctone come la Maremmana e la Chianina vengono gestite estensivamente con successo. Per la salvaguardia del bosco è fondamentale tenere in considerazione alcuni fattori di variabilità, come la tipologia del bosco e del terreno, il carico animale e il suo tempo di permanenza, l’epoca di pascolamento e le razze impiegate. Solamente il raggiungimento di una vera e propria simbiosi tra attività zootecnica e forestale potrà far assumere al bosco nuove valenze estetiche, paesaggistiche e ambientali, accompagnate però anche da componenti produttive e protettive fondamentali per la sua perpetuazione.
Introduzione alle problematiche
Il corretto sfruttamento delle risorse disponibili rappresenta un passo fondamentale per un’appropriata gestione tecnico-economica di un’azienda agro-zootecnica. A maggior ragione, la conduzione di un allevamento brado o semi-brado deve necessariamente basarsi su una profonda conoscenza delle risorse naturali, sia coltivate che spontanee; oltre a ciò sono altresì importanti la tempestività e le modalità di una loro utilizzazione.
L’allevamento brado prevede la permanenza del bestiame nell’area di pascolo per tutto l’anno e può permettere una riduzione dei costi di produzione fino al 60% rispetto ad una gestione convenzionale. Quello semi-brado, avvalendosi di strutture di riparo o alimentazione fisse, consente una riduzione dei costi del 30%. Il maggior investimento in una conduzione estensiva dell’allevamento risulta essere quindi la costruzione di opportune recinzioni che delimitino i pascoli e i boschi o che permettano un loro frazionamento per un sfruttamento razionale. Mentre nel primo caso sono necessarie strutture fisse molto robuste (i.e. pali di castagno alti 1.5 m a circa 3.0 m di distanza e dotati di 5 ordini di filo spinato), nell’altro possono essere utilizzati anche impianti mobili provvisti di due ordini di filo elettrico. Tale sistema di gestione sembra richiedere un addetto ogni 100-150 capi (Lucifero e coll., 1977), a fronte delle ben maggiori esigenze richieste da altre tipologie di allevamento.
Il grande esodo dalle campagne, con il conseguente abbandono di aree precedentemente destinate ad attività agricole o silvo-pastorali, ha creato vaste “zone marginali” lasciate improduttive, perché difficilmente vocabili ad un’agricoltura di tipo intensivo-convenzionale. In particolar modo, in Toscana questi fenomeni sono succeduti all’abbandono dei poderi mezzadrili (Tocchini e Sottini, 1976). Tale realtà ha provocato un eccessivo sviluppo della vegetazione arbustiva (Combe, 1999) e conseguentemente una serie di processi a catena (i.e. incendio, brusco denudamento, dilavamento, erosione) che limitano il riformarsi di un’idonea copertura vegetale. In questo contesto, la costante presenza dell’uomo costituisce un determinante fattore di garanzia e di salvaguardia dell’ambiente e degli animali.
L’importanza della realtà forestale toscana emerge dall’alto indice di boscosità, pari a circa il 47%, con oltre 1.080.000 ha (Vignozzi, 2005), suddivisi in fustaie (14.7%), cedui semplici, composti ed in conversione (64%), castagneti coltivati e abbandonati (2.9%) e boschi con altre vocazioni (18.4%). Le specie prevalenti sono Cerro (22.1%), Castagno (16.4%), Roverella (11.7%), Leccio (10.9%), Faggio (7.0%), Pini mediterranei (5.4%) e Carpino nero (5.2%).
Nel Nord Italia generalmente il pascolo viene effettuato per un periodo limitato dell’anno, dai 2 ai 4 mesi, su prati o boschi ad alto fusto, mentre nell’Italia Centrale tale fase può facilmente protrarsi fino ai 6 mesi su macchia mediterranea sempreverde, boschi di latifoglie decidue o prati. In questo tipo di gestione il binomio animale-ambiente viene valorizzato al massimo dalla presenza di razze rustiche autoctone, come Maremmana, Chianina e Calvana, che, insieme ad alcune razze straniere (i.e. Limousine, Aberdeen Angus o Simmenthal), possono utilizzare al meglio ciò che una gestione estensiva fornisce loro. L’impiego di pascoli naturali e macchia mediterranea con essenze sempreverdi può garantire a tali animali una sufficiente base alimentare sia in inverno, che in estate e un efficiente riparo dalle avversità atmosferiche. La presenza della foresta permette anche di contenere il microbismo ambientale e il diffondersi delle affezioni correlate, tipiche delle stalle e dei ricoveri ad alta densità di animali (Lucifero e coll., 1977).
Pascolamento in bosco
IL BOSCO – Questo ambiente rappresenta un sistema biologico in evoluzione e in rapporto costante con varie specie di mammiferi, il cui equilibrio può essere gravemente alterato (compattamento del terreno, erosione e danneggiamento della rinnovazione vegetale) da uno sfruttamento non razionale, impedendo la perpetuazione del bosco stesso (Franci, 2004). Il pascolo in foresta affonda le proprie radici nell’antica Roma, dove i boschi venivano differenziati in “saltus” (i maggiori per numero, estensione e attitudine pascolativa) e “lucus” (alto-fusti non accessibili al bestiame spesso considerati sacri).
TERRENO E TIPOLOGIA DEL BOSCO – Il tipo di terreno ed il clima rivestono un’importanza fondamentale nella gestione del pascolamento in bosco: le terre argillose, in quanto facilmente compattabili specialmente nelle stagioni umide, risultano le meno adatte, mentre il suolo permeabile delle sugherete, per esempio, appare meno danneggiato dal calpestio animale (AA.VV., 1979). Nei boschi delle regioni settentrionali, dove il suolo risulta quasi costantemente umido, si osservano danni maggiori rispetto a quelli riscontrabili nelle regioni centro-meridionali, come la Toscana, dove l’aridità estiva provoca la siccità del suolo.
Anche la conoscenza dei principali caratteri selvicolturali del bosco risulta fondamentale per un corretto utilizzo:
I. nei popolamenti disetanei il pascolo dovrebbe essere costantemente bandito, a causa della continua rinnovazione in atto;
II. in fustaie coetanee la presenza degli animali dovrebbe essere evitata durante le fasi giovanili, da novellato a giovane perticaia o palina;
III. nei cedui, semplici o matricinati, il pascolo dovrebbe essere evitato nel periodo compreso fra l’epoca del taglio e quando i polloni non abbiano raggiunto dimensioni diametriche tali da non poter essere più abbattute dal bestiame pascolante (5-6 cm, corrispondente a 14-15 anni);
IV. nel ceduo composto è bene ricordare che il novellame da seme, accrescendosi più lentamente dei polloni, può essere maggiormente danneggiato dal bestiame;
V. nel bosco molto denso, caratterizzato da un tappeto erboso fortemente ridotto o assente, il pascolamento dovrebbe essere limitato al massimo;
VI. nei boschi radi, invece, la copertura erbacea e arbustiva è sempre abbondante, consentendo quindi un buon pascolamento; in questo caso sarà inoltre possibile trovare radure più o meno ampie con un buon cotico erboso.
A causa di una non razionale conduzione degli animali in foresta si può notare una vera e propria regressione del bosco: le specie legnose più pregiate risultano spesso anche le meno resistenti e rustiche, rischiando così di scomparire più facilmente a vantaggio delle specie più robuste, ma meno pregiate.
CARICO ANIMALE – L’Articolo n. 65, comma 1 del Regolamento di Attuazione della Legge Regionale n. 39 “Legge forestale della Toscana” enuncia esplicitamente che “Le specie ed il numero di animali da immettere al pascolo e le modalità dello stesso dovranno essere commisurati alla effettiva possibilità di pascolamento e in modo da evitare danni ai boschi, ai pascoli e ai suoli, sia sotto l’aspetto pedologico che idrogeologico”, senza indicare alcuna proposta metodologica per l’attribuzione da zona a zona di tempi e carichi opportuni. Infatti, non esistono dati “ufficiali” in merito al carico animale in bosco, in quanto dipendente dalle numerose variabili precedentemente descritte. Alcuni Autori ritengono che l’ambiente boschivo possa sopportare un carico di mammiferi selvatici per ettaro da 10 kg (AA.VV., 1979) a 100-110 kg di peso vivo (Susmel e Viola, 1981). Tali valori devono comunque essere sempre messi in relazione con la ricchezza della vegetazione, la capacità di rigenerazione degli ecosistemi, la fertilità del terreno, l’andamento climatico, le rotazioni adottate e l’eventuale competizione alimentare tra fauna domestica e selvatica del territorio (Cocca e Campanile, 2005).
MODALITA’ DI PASCOLAMENTO – Il tempo di permanenza della mandria su una stessa parcella o “serrata” deve essere ben definito: un turno che permetta riposo di 20-30 giorni sembra ottimale in quanto permette una sufficiente ripresa della vegetazione pascolata e limita il compattamento del terreno dovuto al calpestio, soprattutto nelle zone circoscritte presso le quali il bestiame sosta in preferenza (i.e. punti di abbeverata, di foraggiamento e di riposo) o che percorre frequentemente (sentieramento). Il tempo di permanenza della mandria nei lotti dipende dalle dimensioni dei lotti stessi e dalla consistenza della mandria: tempi brevi assicurano elevati indici di utilizzazione e livelli di ingestione (Gusmeroli, 2004). L’interruzione del pascolo dovrebbe anche contribuire al diffondersi delle specie nemorali, indispensabili per il miglioramento delle caratteristiche morfologiche e funzionali del tipo di humus ed alla mineralizzazione della lettiera da parte degli agenti biologici (AA.VV., 1984).
Una suddivisione del bosco in recinti consente al bestiame di consumare l’erba presente senza spostarsi in continuazione alla ricerca di cibo: trasferimenti inutili infatti provocano calpestio e sotterramento dell’erba, con forti riduzioni in termini di appetibilità: per la bovina adulta la superficie calpestata ammonta a 60 m2 per km di cammino (Gusmeroli, 2004). Inoltre, all’inizio del periodo di pascolamento gli animali tendono a consumare una razione quotidiana di foraggio che supera largamente il fabbisogno reale e le capacità di assimilazione: ciò provoca uno scadimento quanti-qualitativo dell’alimento disponibile al termine della stagione.
Il suolo fortemente pascolato diminuisce la propria porosità, attenuando così la permeabilità del suolo e riducendo la capacità idrica, con ripercussioni negative sul potere idrogeologico e regimante del bosco (AA.VV., 1984). I bovini arrecano minori danni con il calpestamento rispetto ad altre specie (i.e. caprini e ovini), permettendo anche un migliore sfruttamento dei cedui più densi.
INFLUENZA DEL GENOTIPO – Il tipo genetico influenza notevolmente i fabbisogni nutritivi degli animali. Le razze da carne tipiche italiane, la Chianina in particolare, sono caratterizzate da una elevata capacità di ingestione e da alti fabbisogni proteici superiori rispettivamente del 10 e 20% rispetto ai riferimenti francesi, più rispondenti alle esigenze di razze come la Limousine (Ligabue e coll., 2005). Ciò implica un’attenta e non rigida tecnica di alimentazione, pronta a colmare carenze e a sfruttare abbondanze che alternano le stagioni.
Studi condotti in Svizzera (Mayer e coll., 2003) hanno dimostrato che il pascolo in bosco, anche grazie alla forte capacità selettiva dei bovini verso le essenze maggiormente digeribili, sembra fornire un’alimentazione sufficiente per manze e vacche di razza Bruna e Grauvieh. Tale realtà ha fatto rilevare una biomassa disponibile molto variabile (da 740 a 2410 kg S.S./ha) ed utilizzata dagli animali in maniera disomogenea, ma che ha fatto registrare valori di ingestione (1.3-1.8 kg S.S./100 kg PV, rispettivamente per manze e vacche adulte) e digeribilità (61.9-62.3% sulla sostanza organica e 61.5-65.4% sull’NDF) pressoché costanti nel tempo.
Anche in Spagna i boschi vengono da sempre utilizzati non solamente per il celebre pascolo suino (il “Cerdo Iberico Montanera” nella Dehesa), ma anche per quello bovino, ovi-caprino ed equino. Proprio per questo motivo sono state delineate le seguenti equivalenze in termini di sfruttamento delle risorse forestali: un bovino è assimilabile a 7 pecore; un cavallo, asino o mulo a 6 pecore; un maiale a 5 pecore e una capra a 3 pecore (Pardo e Gil, 2005).
L’esempio della Chianina – Col superamento della crisi della razza Chianina gli agricoltori, dopo la chiusura delle stalle poderali dove gli animali erano mantenuti a stabulazione permanente, hanno sperimentato nuove soluzioni di allevamento, come la stabulazione libera, l’allevamento semi-brado o brado. Tali realtà, iniziate ormai nei primi anni ’60, hanno dimostrato come, dopo un periodo di transizione di circa un anno, i bovini si siano adattati perfettamente ai nuovi sistemi di allevamento (Borgioli, 1975). Mentre infatti nel sistema tradizionale l’efficienza riproduttiva e lo stato sanitario dei capi erano insoddisfacenti (interparto 17-20 mesi, con il 60-65% di vitelli nati), nell’allevamento brado si sono potute raggiungere percentuali di nascita pari almeno al 90%, con riduzioni dell’interparto fino a 12 mesi. Inoltre, il bestiame si è presentato docile, vigoroso, dotato di una muscolatura asciutta e capace di pascolare efficacemente sia l’erba dei prati che le foglie e i rametti delle essenze arboree e arbustive dei boschi e della macchia.
Il pascolo arboreo risulta particolarmente appetito dalla razza Chianina nel periodo della tarda estate: le foglie e i germogli, pur avendo in tale momento un minor valore nutritivo, contengono una maggior quantità di sostanze tanniniche astringenti e di cellulosa che sembrano bilanciare un’alimentazione troppo acquosa e lassativa basata sui ricacci tardivi dei prati. Inoltre, le prime piogge autunnali inumidiscono e ammorbidiscono l’erba e gli arbusti del sottobosco ricchi di lignina, rendendoli molto più appetibili (AA.VV., 1979).
L’indirizzo selettivo verso il quale questa razza è ormai da molti anni diretta costringe a sottolineare l’importanza di un’attenta scelta dei soggetti da destinare alla vita all’aperto per ridurre i problemi anche seri dovuti alla scarsa attitudine al pascolamento, utilizzazione di foraggi grossolani e alla ridotta capacità di movimento. In questo senso la scelta dei riproduttori deve essere rivolta verso soggetti dotati di maggior rusticità e frugalità (detti “macchiaioli”), oppure verso animali con spiccata attitudine materna o ragguardevole produzione di latte, come le “vacche lattifere”.
La scelta del toro appare fondamentale anche per limitare l’incidenza di parti distocici, scarsamente rilevabili in bosco. Ad un toro con monta stagionale, da aprile ad agosto, è generalmente affidato un harem di circa 20-30 femmine, mentre, nel caso di permanenza del maschio per tutto l’anno, i branchi possono essere formati anche da 40-60 soggetti. Il naturale ricorso alla rimonta interna (12-15%) obbliga l’utilizzazione dei tori per un periodo medio non superiore alle tre stagioni di monta, onde evitare accoppiamenti consanguinei.
La realtà della Maremmana – I boschi della Maremma sembrano poter coprire interamente i fabbisogni di vacche e vitelli per almeno 3 mesi (da settembre a novembre). Durante i successivi 5 mesi dovrebbe essere applicata un’opportuna integrazione alimentare (fieno), mentre da maggio ad agosto il pascolamento su prati-pascolo dovrebbe essere sufficiente (AA.VV., 1979). In questo modo il bosco sembra fornire circa la metà del fabbisogno alimentare globale: per tre mesi tutta l’alimentazione proviene dal bosco, mentre per i restanti nove solamente un terzo.
Una delle tecniche più utilizzate e pratiche per l’alimentazione di soccorso è la cosiddetta “impagliata”: quando le condizioni pedo-climatiche lo consentano, si può procedere allo scarico del fieno direttamente sul terreno in lunghi cordoni. Tale procedura permette di distanziare gli animali lungo l’andana così formata, riducendo quindi gli effetti della competizione in fase di alimentazione e di effettuare inoltre una semina indiretta dei pascoli con le varie sementi contenuti nell’alimento (Tocchini e Sottini, 1976).
Esperienze condotte in Maremma (AA.VV., 1984) hanno dimostrato che per l’alimentazione di 100 vacche brade occorrono in media 300 ha di bosco pascolabile e 40-50 ha di prato-pascolo (fieno di primo sfalcio – resa media 50 q.li/ha; pascolo su prato – resa media 100 q.li/ha; ingestione media 35 kg/capo/giorno). Altri Autori ritengono adeguato un carico pari ad un capo adulto ogni 4-6 ha di macchia, più 2-3 ha di pascolo erbaceo all’anno, che può ridursi fino ad un terzo nel caso di pascoli migliorati (Lucifero e coll., 1977).
Inoltre, questa razza si adegua alle modificazioni quantitative della dieta, con variazioni di peso anche notevoli, senza compromettere la capacità riproduttiva.
Il comportamento degli animali al pascolo presenta un’interessante particolarità: una vera e propria collaborazione tra conspecifici porta alcuni soggetti a piegare le piante fino ad abbassare le chiome a livello del suolo, permettendo così ad altri di cibarsene (AA.VV., 1984).
Da un punto di vista pratico, alcuni Autori non hanno rilevato vantaggi in animali immessi precocemente in bosco in primavera: in questo periodo, infatti, il bestiame sembra utilizzare la vegetazione in una fase di crescita più elevata, ma di scarso valore nutritivo e con alte concentrazioni di sostanze antinutrizionali, come i tannini nelle specie quercine (AA.VV., 1979).
L’unico fattore limitante dei bovini Maremmani mantenuti in bosco risulta la carenza del fosforo, che è stata più volte messa in evidenza da rilievi sul sangue. Tale deplezione può incidere negativamente sulla fertilità, per cui è consigliata un’opportuna integrazione fosforica stagionale e, quando possibile, la concimazione di prati e pascoli (AA.VV., 1984).
VALORE NUTRITIVO DEL BOSCO – Da un punto di vista nutrizionale risulta molto difficile stimare sia le potenzialità di un pascolo che la quota di ingesta, poiché strettamente collegate con la fase fenologica della pianta e l’andamento climatico (Tab. 1).
Lo sfruttamento dei prodotti del bosco è variabile: si può andare da circa 90 giorni di caduta della ghianda per il Cerro, a 120 giorni per la Roverella, fino ai 150 giorni per il Leccio (Franci, 2004). Le annate dove la produzione di frutti risulta particolarmente elevata, chiamate “di pasciona”, si alternano ogni 2-3 anni; durante tali periodi non veniva disdegnata la raccolta di ghiande o castagne e la loro successiva conservazione (bagnate o essiccate e poi macinate) per la somministrazione al bestiame stabulato.
Altre ricerche hanno messo in evidenza che specie come l’albatro, il leccio, il lillatro e la ginestra vengono pascolate durante tutto l’anno, mentre altre, come la quercia e l’olmo, solamente dalla primavera all’autunno (AA.VV., 1984).
Tabella 1 – Composizione chimica e valore nutritivo stimato di foglie e germogli di essenze arboree ed arbustive tipiche della macchia mediterranea riferiti all’alimento tal quale (Sottini e Geri, 1970, modificata).
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La produttività del bosco è stata valutata in Maremma pari a circa 100-150 U.F./ha all’anno, corrispondenti a 10-12 q.le/ha di foglie, germogli, fronde ed erbe del sottobosco con valore nutritivo medio di 10 U.F./q.le., con punte di circa 20-40 q.li/ha di sostanza secca in primavera. In media da una foresta è possibile ottenere l’equivalente di 3.2 q.li di fieno/ha con un valore medio di 40 U.F./q.le. Risulta infatti che la sostanza secca delle foglie di ornello, roverella, corbezzolo e ginestra abbia un valore nutritivo superiore a quello del fieno di media qualità, mentre quello di leccio e scopa appare paragonabile a quello di una buona paglia di avena (AA.VV., 1984). Altri Autori riferiscono stime più ottimiste, con apporti alimentari medi stimati intorno alle 250-400 U.F./ha/anno nella provincia di Firenze (AA.VV., 1979) o 1650 U.F./ha/anno in un bosco ceduo umbro (AA.VV., 1984).
Nella macchia mediterranea le specie rifiutate sembrano essere poche: tra queste vi sono, ad esempio, il lentisco, la mortella e il cisto.
Se scarsi e non univoci sono i dati riferiti alla disponibilità di frutti del bosco, ancora inferiori sono quelli riguardanti il contributo foraggero del bosco ceduo di latifoglie decidue (Tab. 2).
Tali valori, non alti in assoluto, devono però essere messi in relazione con le esigenze nutrizionali di un bovino: animali adulti richiedono una razione di mantenimento di circa 6-7.5 U.F. al giorno, pari approssimativamente a 2500 U.F. all’anno: così, il pascolo boschivo sembra contribuire da un minimo del 20-25% ad un massimo del 50% al soddisfacimento del fabbisogno alimentare degli animali (AA.VV., 1984).
STRATEGIE DI MIGLIORAMENTO ATTUABILI – Un’operazione non sempre praticabile per i possibili gravi danni arrecabili al bosco è la trasemina: specie erbacee adatte, come trifoglio sotterraneo, bromo catartico e loglio rigido, sembrano poter accrescere di circa 250 U.F./ha il valore alimentare boschivo, consentendo una precoce immissione degli animali e facendo assumere alla foresta una valenza protettiva oltre che alimentare (AA.VV., 1984). Un’altra pratica molto interessante è l’impiego delle fasce parafuoco che delimitano le varie sezioni di un bosco come veri e propri pascoli migliorati: una corretta gestione di aree di rifugio e zone di alimentazione confinanti può permettere agli animali di soddisfare esigenze etologiche e alimentari fondamentali.
Un’ulteriore possibilità di miglioramento è rappresentata dallo sfruttamento delle colture arbustive nelle catene di pascolamento, avvalendosi della loro maggior resistenza alle deficienze idriche, grazie all’apparato radicale più profondo e, diversamente da quanto accade nei pascoli erbacei, anche alla maggiore disponibilità di alimento in forma digeribile e appetibile persino fino alla caduta delle foglie stesse. Sembrano essere adatti a questo scopo (Tab. 3) alcuni tipi locali di pioppo, il gelso, specialmente delle varietà tardive giapponesi Kokusò, la vite americana, l’acero negundo, l’indaco bastardo, senza dimenticare anche le rosacee da frutto, il corniolo, il carpino, il bagolaro, l’eleagno e l’erba medica arborea (AA.VV., 1984).
Conclusioni
L’organizzazione di un opportuno sistema foraggero basato su “catene di foraggiamento” che prevedano boschi, pascoli naturali, prati ed erbai di diversa precocità in rotazione risulta una strategia perseguibile per gestire in maniera sostenibile un’azienda estensiva in funzione del raggiungimento di una simbiosi tra attività zootecnica e forestale. In questo contesto il bosco assume valenze estetiche, paesaggistiche e ambientali, accompagnate anche da componenti produttive e protettive, che ne consentano una graduale ma costante ripresa dell’importanza economica.
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(Già pubblicato su Taurus Speciale 2008, autore Jacopo Goracci)
GORACCI J. (1), UZIELLI M.N. (2),
GIULIOTTI L. (1), BENVENUTI N. (1)
(1) Dipartimento di Produzioni Animali – Facoltà di Medicina Veterinaria – Università di Pisa – Viale delle Piagge, 2 – 56124 – Pisa, Italia, lgiuliot@vet.unipi.it
(2) Tenuta di Paganico Soc. Agr. S.p.A. – Via della Stazione, 10 – 58045 – Paganico, Grosseto, Italia, azienda@tenutadipaganico.it.
Zootecnia biologica Le esperienze e i progetti di allevamento biologico del bovino. |