di Beatrice Lepri
Cavalli Maremmani nel Parco dell’Uccellina (foto Marco Salvaterra)
L’etologia (dal greco “ethos”, uso, abitudine) è lo studio scientifico del comportamento degli animali nei loro habitat naturali: in particolare studia i meccanismi e le relazioni i causali del comportamento sulla base di presupposti evoluzionistici, di conoscenze anatomiche, fisiologiche ed ecologiche (Fraser, 1992).
I “pionieri” dell’etologia, come K. Lorenz, si limitavano ad osservare e descrivere il comportamento degli animali, e le loro interazioni, fra loro e l’ambiente che li circondava.
L’errore comune, che oggi si cerca di evitare, è quello di attribuire caratteristiche “umane” a comportamenti animali. La comprensione del perché un animale manifesti un certo comportamento può risolvere problemi legati sia all’allevamento di una determinata specie, sia al rapporto stesso dell’uomo con i singoli soggetti, siano essi gatti, cani o cavalli (Klinghammer, 1971).
L’allevamento “sradica” l’animale dal suo ambiente naturale, e lo costringe a vivere a contatto con l’uomo in un luogo, “costruito” secondo schemi umani, che dovrebbe garantirgli un certo stato di benessere.
Attraverso lo studio d’alcuni principi generali del comportamento naturale di una determinata specie, bisognerebbe cercare di favorire la manifestazione di comportamenti normali, nel tentativo di prevenire eventuali patologie comportamentali (Mainardi, 1977).
Tutti sappiamo che il gatto domestico usa segnare il territorio con la propria urina, ma ci ostiniamo a tenere maschi sani in casa, arrabbiandosi con loro ogni volta che troviamo i nostri mobili o i nostri vestiti “marcati” dal cattivo odore! Molti padroni attribuiscono a tale comportamento motivazioni umane: “mi sta facendo un dispetto!” (si sente spesso dire dalle padrone di gatti “poco urbani”). Eppure l’attuale gatto domestico ha ben poco dell’istinto felino che lo associa alla sua specie: il micio di casa può essere anche “convinto” ad usare la cassetta, ma provate ad impedire di marcare il territorio ad un leone! Reprimere tale istinto lo porterebbe a perdere la sua supremazia sul suo branco, con conseguenze terribili sia per lui sia per la sua progenie.
Se con il gatto di casa i problemi relativi al suo istinto “atavico” possono essere risolti in modo più o meno “cruento” (si tratta pur sempre di un esemplare che non supera, quasi mai, i 10 kg!), ben altri sono i problemi legati al management di razze come gli equini: seppure i cavalli domestici siano avulsi dal contesto naturale da migliaia d’anni, in loro è comunque rimasta sempre viva l’immagine dello stallone Alfa (capobranco), e dell’Omega.
Se li osserviamo attentamente in libertà, tutti gli “articoli” contenuti nel “Codice di Branco” che vige tra gli equidi selvatici, sono ancora ben impressi nella loro mente.
In natura, infatti, i cavalli, essendo erbivori e prede, si riuniscono i branchi, dove è possibile riconoscere il maschio dominante, Alfa appunto, che vigila su gruppo delle sue femmine (tra le quali è sempre possibile riconoscere una dominante temuta e “rispettata” da tutte le altre) e dei suoi puledri. I più giovani del branco, più indifesi dagli attacchi esterni dei predatori, sono tenuti all’interno di un cerchio, e sono circondati dagli adulti, femmine e maschie. Questi ultimi, non appena raggiunta la maturità sessuale, devono in ogni modo accettare l’autorità del maschio Alfa. Si arriva allo scontro tra maschio Alfa e maschio Omega (chiamiamolo “principe”) sono in casi eccezionali, come ad esempio quando il maschio dominante è ormai anziano. L’effetto principale di una gerarchia ben definita, è quello di ridurre al minimo gli scontri all’interno del branco, dal momento ce ogni cavallo conosce il suo ruolo e rari sono i casi d’insubordinazione: questo tipo d’”organizzazione” permette al branco di sopravvivere in un habitat dove l’unica arma che un cavallo ha per difendersi dai predatori, è la fuga. Partendo da queste premesse, gli etologi dei cavalli, hanno potuto osservare il “linguaggio” che viene usato nel branco, e alcuni di loro hanno provato anche a riprodurlo, arrivando a “sussurrare” ai cavalli, usando il “loro” linguaggio.
Questa è la base della tanto discussa “doma dolce”!
Sottomettere e domare un cavallo con la paura e la violenza porta senza dubbio risultati apprezzabili: in fondo si tratta d’animali paurosi, abituati a fuggire davanti al predatore.
Gli addestratori “moderni” si sono resi conto che spesso è meglio cercare di far collaborare un animale di 900 kg, dotato di forza che piegarlo con la forza e la paura! Un puledro ricerca sempre il maschio Alfa: e allora perché non cercare di imitare il comportamento di un dominante, per comunicare su un giovane con le idee non ancora molto chiare?
Qui di seguito riporterò alcuni esempi molto semplici di comportamenti e reazioni di cavalli sottoposti a varie sollecitazioni. Tutti questi comportamenti li abbiamo notati numerose volte nei maneggi e negli allevamenti, e, come nel caso del gatto, cerchiamo di dare loro motivazioni “umane”. Del resto si vede spessissimo padroni di cavalli avere, anche per troppo affetto, un atteggiamento verso il loro animale, “inadatto” a un equide e più consono ad un barboncino!
Cavalli Maremmani nel Parco dell’Uccellina (foto Marco Salvaterra)
Beatrice Lepri, laureata in Scienze delle Produzioni Animali all’Universita’ di Pisa, vanta quasi due lustri di esperienze maturate presso l’Associazione Italiana Quarter Horse. E’ anche allevatrice di cavalli. Curriculum vitae >>>