Un possibile binomio per la produzione di miele e polline
di Michelangelo Cecconi
Introduzione
L’Evodia (Tetradium) daniellii è una pianta arborea originaria delle regioni asiatiche (Cina e Korea) chiamata honey tree o bee bee tree in relazione alla sua grande capacità di attrazione per gli insetti (in particolare apoidei) e per il notevolissimo potenziale nettarifero e pollinifero che la contraddistingue.
La relazione tra l’uomo e l’ape risale forse a più di 9.000 anni fa e l’uomo ha imparato presto ad utilizzare i diversi prodotti estratti dall’alveare riconoscendone le proprietà benefiche e facendone elementi strategici per la stessa sopravvivenza come alimento, in medicina ed in seguito nella cosmesi (Sabatini e Carpana, 2002).
Ad oggi, nei paesi economicamente avanzati, l’apicoltura è possibile solo a seguito della acquisizione di profonde conoscenze sulla interazione ape-ambiente, sulle proprietà dei prodotti dell’alveare e sulle tecniche di raccolta, lavorazione, confezionamento, conservazione commercializzazione e distribuzione. In questi paesi la produzione di ciascun prodotto (miele, cera, polline, propoli, gelatina reale, veleno, regine, regine selezionate, sciami, centraline di monitoraggio).
Negli ultimi anni, in Italia, l’aumento dell’interesse collettivo verso prodotti alimentari direttamente collegati al mondo naturale ed alla medicina (prodotti biologici, ecocompatibili e alternativi alla medicina tradizionale) hanno provocato, nel settore apistico, una rapida evoluzione verso la rivalutazione e commercializzazione di tutti i prodotti dell’alveare.
Qui di seguito viene riportato un lavoro che prende in considerazione lo studio di una particolare pianta rispetto alle sue possibilità produttive. Nella prima parte verrà brevemente descritta apis mellifica, la sua morfologia e fisiologia e come l’ape sia in grado di produrre ed elaborare il miele e raccogliere il polline e a che scopo.
Nella seconda viene descritta la pianta considerata, il suo aspetto le sue caratteristiche e ciò che ci è dato conoscere dalla letteratura disponibile.
Infine si valuterà quale siano le idee personali nate a seguito del lavoro svolto e quale siano i possibili studi da continuare per approfondire l’argomento in modo scientifico e con una valutazione che riguardi anche i benefici possibili per l’apicoltore in relazione alla eventuale piantumazione dell’albero.
Le Api mellifeche
Apis mellifica, generalità
Quando parliamo di apis mellifica ci riferiamo ad animali appartenenti al phylum Arthropoda, classe Insecta, ordine Hymenoptera, superfamiglia Apoidea, genere Apis, specie A. mellifica.
Le api mellifiche di interesse per la produzione del miele vivono in grandi società pluriennali dette colonie o famiglie costituite da decine di migliaia di individui, all’interno di dette società gli animali sono divisi in caste, quella dei riproduttori, comprendente le api regine (femmine feconde) ed i fuchi (maschi) e quella dei soggetti sterili (api operaie). Le famiglie vivono su favi di cera (prodotta delle stesse api) in cavità naturali o in ripari forniti dall’uomo (arnie), i favi sono composti da una doppia serie di cellette esagonali disposte orizzontalmente, ma con una leggera inclinazione verso l’alto, sono strettamente addossate le une alle altre e presentano il fondo in comune.
Determinazione del sesso
Come per tutti gli altri organismi viventi il sesso nelle api è determinato da caratteri genetici, la femmina fertile (regina), durante il complicato processo di accoppiamento con i fuchi, accoglie lo sperma nella spermateca e lo conserva attivo per tutta la vita. All’interno del suo ovario sono presenti i gameti femminili con corredo genetico aploide, così come aploide è il corredo genetico degli spermi accolti nella spermateca, l’aploidia dei gameti è dovuta ad un processo detto meiosi, una modalità di replicazione cellulare che prevede il dimezzamento del corredo genetico, in maniera che alla riunione dei due gameti con la fecondazione si ritorni ad un corredo diploide dello zigote. Il numero di cromosomi presenti nelle cellule delle api è di 32.
J. Dzierzon nel 1845 scoprì che da uova fecondate nascevano femmine, mentre da uova non fecondate (quindi con corredo genetico aploide) nascevano maschi attraverso un processo denominato partenogenesi aploide arrenotoca. Questa regola, è stato evidenziato nel tempo da altri studiosi, presenta in realtà delle eccezioni, seppur raramente, possono nascere femmine da deposizione di uova non fecondate (partenogenesi telitoca) e maschi da uova fecondate con corredo diploide.
I tipi che troveremo all’interno della colonia, in relazione alla suddivisione per sesso e per casta saranno comunque rappresentati da:
• api operaie, geneticamente identiche l’una alle altre, sterili, il cui compito è quello di provvedere a tutte le necessità della famiglia escluse quelle riproduttive;
• ape regina, femmina sessualmente attiva, il cui compito principale è quello di deporre le uova e garantire la sopravvivenza della colonia;
• fuco, maschio riproduttore.
Differenze morfologiche fra ape operaia, fuco ed ape regina (foto http://www.uni.illinois.edu/)
Cenni di anatomia e fisiologia delle api
Generalità
Le api hanno, come gli altri insetti, il corpo suddiviso in tre parti:capo, torace e addome.
Queste porzioni sono a loro volta composte dall’aggregazione di diversi segmenti.
All’esterno il loro corpo è protetto da un esoscheletro chitinoso chiamato cuticola che ha una notevole rigidità e resistenza, le varie parti rigide sono collegate tra di loro tramite delle membrane di tessuto elastico, in queste parti la cuticola risulta essere più sottile e dotata di una certa flessibilità.
Il capo dell’ape
Il capo dell’ape (prenderemo come riferimento quello dell’ape operaia) è una capsula rigida, di forma vagamente triangolare, che porta nella parte superiore gli organi della vista, due occhi composti, di grosse dimensioni, costituiti da migliaia di piccoli elementi (ommatidi) che permettono la formazione dell’immagine dell’ambiente circostante, e tre occhi semplici o ocelli, disposti sulla fronte, la cui funzione sembra sia quella di misurare l’intensità luminosa.
Sempre sul capo sono presenti dei segmenti metamerici, le antenne, di forma cilindrica, ripiegate a L. Su questi organi sono presenti importanti recettori sensoriali di diversi tipi:
1. tattili
2. olfattivi
3. gustativi
4. termici
5. igrometrici
L’apparato boccale, si trova all’angolo inferiore del capo, è di tipo lambente succhiante ed è
composto di varie porzioni:
• labbro superiore, poco sclerificato a copertura del resto dell’apparato;
• due mandibole, adatte alla lavorazione della cera ed alla raccolta della propoli, ma sprovviste di dentellature e quindi disadatte a lacerare tessuti;
• due mascelle, mobilissime, costituite da articoli ben distinti servono essenzialmente per creare un canale per suggere gli alimenti, le due mascelle portano anche organi di senso gustativi;
• Il labbro inferiore, originato dalla fusione di un secondo paio di mascelle, è formato di vari articoli in parte pari, in parte impari, tra essi ricordiamo la ligula formata dall’unione delle glosse costituisce un canale attraverso il quale emette saliva e nel contempo riesce a suggere il nettare ed altri liquidi.
Il torace
È formato da quattro segmenti, i primi tre (prototorace, mesotorace, metatorace), ne fanno effettivamente parte, il quarto (propodeo) è in realtà parte morfologica dell’addome, nei
segmenti si evidenziano una lamina dorsale, una ventrale e due laterali, il torace è ricoperto di peli che ne mascherano la segmentazione.
A ciascuno dei primi tre segmenti del torace sono articolate un paio di zampe, al secondo e terzo segmento sono articolate un paio di ali ciascuno.
Le zampe
Le zampe sono composte da una sei segmenti articolati ricoperti di peli: coxa, trocantere, femore, tibia, tarso e pretarso.
Servono sia per la deambulazione che per la raccolta del polline e parti di esse per la pulizia del corpo.
Il pretarso è provvisto di due unghie bilobe (che consentono all’ape di aderire a superfici scabre) fra le quali si trova l’arolio, ventosa che permette di aderire alle superficie lisce.
Le zampe presentano caratteristiche particolari: il primo paio possiede una stregghia in cui l’ape inserisce le antenne per pulirle dal polline, così le stesse hanno setole sensoriali. Il secondo paio presentano, nella porzione tibiale, una spina che serve all’ape a staccare il polline dalle cestelle. L’ultimo paio di zampe sono le più specializzate e presentano lateralmente, sulla tibia, una concavità detta cestella del polline, provvista al centro di una setola attorno alla quale si accumula il polline raccolto sotto forma di pallottole, anche su questo paio di zampe sono presenti strutture destinate ad essere usate per provvedere alla pulizia del corpo.
Le ali
Sono delle estroflessioni membranacee a livello del 2° e 3° segmento toracico, costituite da due lamine sottili, sovrapposte e ravvicinate. Le ali anteriori sono di dimensioni maggiori e maggiormente venulate, allo stato di riposo sono poste ripiegate sopra l’addome con le anteriori che sovrastano le posteriori.
Durante il volo si muovono affiancate e strettamente unite grazie alla presenza, sul bordo anteriore dell’ala posteriore di numerosi uncini (detti hamuli) che si collegano con una piega presente sul margine posteriore dell’ala anteriore, rendendo le due strutture piuttosto solidali durante il movimento.
Le api sono in grado di sopportare lunghi e veloci voli trasportando carichi importanti in relazione al loro peso, basti pensare che un soggetto del peso di circa 100 mg può trasportare un carico di nettare di 40 mg (o 15 mg di polline) per una distanza anche oltre 3 km ed alla velocità di 15/20 km/h (Chauvin 1968).
L’addome
Costituito morfologicamente da 6 segmenti numerati dal II al VII in relazione al fatto che il primo, il propodeo, fa parte del torace. Tra il I e il II segmento è presente un restringimento detto peziolo o peduncolo la parte che lo segue prende il nome di gastro e rappresenta l’addome propriamente detto. Il peduncolo rende l’addome particolarmente mobile e nel contempo lo isola termicamente dal torace.
I segmenti hanno forma ad anello e sono composti di una parte dorsale detta tergiti e nella parte ventrale assumono il nome di sterniti. Le varie porzioni sono disposte a squama di pesce, questo consente una notevole capacità di movimento unita ad un ottima resistenza meccanica della struttura, ogni segmento è unito al seguente tramite una membrana elastica che facilita i movimenti (determinati da una complessa muscolatura), è però da tale membrana che acari come la varroa riescono ad alimentarsi dell’emolinfa dell’ape.
Nell’addome sono presenti una serie di importanti strutture:
• ghiandole ceripare. La cera viene prodotta solo dalle operaie tra il decimo e diciottesimo giorno di vita. Le ghiandole che la producono sono situate a livello della parte anteriore degli sterniti IV, V, VI e VII,
• la ghiandola di Nasonov. Posta nello spazio tra il VI ed il VII segmento detta anche ghiandola odorifera produce sostanze estremamente volatili che servono per il richiamo delle compagne in diverse situazioni (rinvenimento di cibo, aggregazione degli sciami e dei glomeri),
• Il pungiglione. È uno strumento di difesa che hanno tutte le femmine, esso è, a riposo, accolto in una apposita borsa ed estratto al momento dell’aggressione, la sua origine morfologica è da ricollegare ad un organo per l’ovodeposizione modificato (questo spiegherebbe la sua assenza nei maschi), si tratta di uno stiletto dentellato con i denti rivolti all’indietro, collegato alle ghiandole velenifere. Il veleno è un liquido che si raccoglie in una vaschetta (detta borsa del veleno) e proviene dalla attività secernente di diverse ghiandole. Quando l’ape punge la punta del pungiglione si conficca nei tessuti della vittima e il pungiglione rimane attaccato e nel tentativo di estrarlo l’addome si lacera e l’ape che ha punto la pelle di un animale è destinata, nella maggior parte dei casi a morire. Questo non succede nel caso vengano punti altri artropodi.
L’apparato digerente
L’apparato digerente delle api inizia a livello della bocca e si prosegue nella faringe (provvista di una muscolatura che le consente una certa capacità di dilatazione per favorire la ingestione dei liquidi nutritivi), segue l’esofago, un lungo e sottile tubo che, dopo avere attraversato il torace, entra nell’addome; qui si allarga a formare l’ingluvie o borsa melaria, dalle pareti estensibili. É qui che si immagazzina il nettare bottinato dalle api operaie per essere trasportato all’alveare.
All’ingluvie segue il proventricolo (ed è qui che termina l’intestino anteriore o stomodeo), il quale si apre nell’ingluvie mediante un dispositivo valvolare con quattro lembi a triangolo 4 bande delimitanti un’apertura a X.
Questo sistema consente il passaggio di nettare verso il proseguo dell’apparato digerente per il fabbisogno dell’ape, ma non lascia fuoriuscire liquidi quando l’ape rigurgita il nettare durante la trofallassi.
L’ape, quando necessita di nutrimento, apre la valvola e si somministra la razione di cui abbisogna. Il mesointestino, detto anche stomaco, o ventricolo, è tappezzato da uno strato di cellule epiteliali deputate alla secrezione dei succhi digestivi per la digestione dell’alimento e all’assorbimento delle sostanze digerite.
L’intestino posteriore, o proctodeo, comprende l’intestino tenue e l’intestino retto.
L’intestino tenue, in cui si apre l’intestino medio mediante la valvola pilorica, riceve nel suo tratto iniziale lo sbocco di circa 100 tubi malpighiani, lunghi e contorti, deputati all’eliminazione dei cataboiliti.
L’intestino retto comprende una parte prossimale, la cui parete è percorsa da cordoni longitudinali detti papille rettali ed aventi una funzione probabile di riassorbimento di liquidi e sali minerali, ed una porzione distale detta ampolla rettale, in cui vengono accumulate le feci per essere espulse attraverso l’ano durante il volo (le api non defecano solitamente all’interno dell’alveare, ma in volo).
L’apparato respiratorio
Apis mellifica possiede un apparato respiratorio piuttosto sviluppato. Le api lasciano entrare l’aria attraverso delle aperture, dette spiracoli, questi sono disposti a coppie, tre nello pseudotorace e sette nell’addome.
Dagli spiracoli si dipartono delle trachee che si immettono in dilatazioni dette sacchi aerei e da questi ultimi un altro sistema di trachee, che si diramano e si assottigliano sempre di più (tracheole) fino a raggiungere tutti gli organi.
L’atto respiratorio è determinato dalla dilatazione e compressione dell’addome, come una pompa che porta l’aria ad essere distribuita in ogni settore ed infine ad essere ceduta direttamente agli organi attraverso la sottile parete delle tracheole.
L’apparato circolatorio
La circolazione di sangue (meglio di emolinfa) nell’ape avviene attraverso la diffusione nell’organismo di questo liquido in modo non vascolare, ma in maniera libera attraverso un sistema di lacune. Questo è possibile anche per il fatto che il compito dell’emolinfa è sostanzialmente quello di veicolare i nutrienti e non l’ossigeno (che come abbiamo visto diffonde direttamente dal sistema respiratorio.
La circolazione dell’emolinfa è garantita grazie alla presenza, lungo la linea dorsale mediana del corpo, di una vaso, detto vaso dorsale, dotato di una parte contrattile, detta aorta, che si apre nella regione cefalica.
Il vaso dorsale, nella sua parte addominale è composto di porzioni (dette ventricoliti) nel numero di quattro-cinque, dotati di aperture od orifizi attraverso i quali viene aspirata l’emolinfa, grazie alla pompa azionata dalla parte contrattile, l’aorta poi sospinge il sangue verso il capo dell’animale, il ritorno avviene attraverso un sistema lacunare.
Il sistema nervoso
Il sistema nervoso delle api è formato da tre differenti settori tra loro interconnessi, l’apparato centrale, quello viscerale e quello periferico.
Il sistema centrale è costituito da un grosso ganglio (detto anche cerebro) posto nel capo, occupa un volume di circa 1mm³ e pesa circa 1 mg (1/100 del peso dell’ape), e da una catena di gangli che arrivano fino all’addome, detta catena ganglionare ventrale.
Il sistema nervoso di questi insetti è piuttosto semplice, confrontato a quello dei vertebrati, ma perfettamente in grado di soddisfare le esigenze di questi animali, risultando il loro comportamento, non stereotipato, ma anzi flessibile e dotato di una certa capacità di apprendimento e di adattamento.
Il sistema ghiandolare
Apparato endocrino
Esso è strettamente legato al sistema nervoso, ed è composto da una serie di ghiandole che producono sostanze destinate ad influenzare i processi di sviluppo, il metabolismo ed il comportamento dell’ape, si distinguono tre tipologie di ghiandole:
1. Cellule neurosecretici. Poste lungo ed in prossimità del sistema ganglionare ventrale, sono deputate alla produzione di sostanze coinvolte nello sviluppo morfologico dell’animale a partire dal suo stadio larvale (mute, metamorfosi, riproduzione, morfogenesi ecc.). Sembra anche che siano coinvolte nell’attivazione di alcuni geni che attraverso stimolazioni esterne determinino la forma del corpo.
2. Corpi cardiaci e corpi allati. Producono sostanze il cui effetto è legato a quello delle attività metaboliche in genere, i corpi allati in particolare sono deputati alla produzione della neotenina che ha l’effetto di mantenere i caratteri giovanili rendendo possibile l’accrescimento degli stadi preimmaginari.
3. Ghiandole toraciche. Producono l’ormone della muta o ecdisone che, in presenza di neotonina, consente l’accrescimento preimmaginale ed induce le mute.
Apparato esocrino
Ve ne sono diverse e diffuse in diverse parti del corpo dell’ape, si ricordano quelle della cera, le ghiandole mandibolari, quelle di Nasonov quelle mandibolari e le faringee laterali.
L’apparato escretore
È rappresentato, essenzialmente, dai tubuli malpighiani, questi tubuli sono immersi nell’emolinfa e si aggettano nell’intestino tenue, essi riassorbono i cataboliti dal sistema circolatorio e li eliminano attraverso l’apparato digerente, previo riassorbimento di acqua e minerali, ricordano, molto semplificati, i tubuli malpighiani del nefrone renale dei vertebrati.
L’apparato riproduttore
Gli organi riproduttori sono rappresentati, nei fuchi, da un paio di testicoli separati e purifollicolari, due dotti deferenti che si uniscono in un dotto eiaculatorio, munito di ghiandole accessorie ed infine un organo per la copula (composto da un pene e da tue processi laterali) e nella femmina da due ovari molto sviluppati e che occupano la quasi totalità dell’addome, una spermateca (ove viene conservato l’eiaculato) e una vagina.
La produzione del miele
Il miele rappresenta la fonte di cibo essenziale per la sopravvivenza delle api adulte, esso è prodotto dalle stesse api attraverso la raccolta di nettare o melata. Al contrario di come si credeva un tempo, il miele, non è semplicemente il nettare raccolto e stoccato nelle cellette dei favi, ma un vero e proprio prodotto di origine animale, elaborato attivamente dalle api stesse.
Tralasciando in questa sede la descrizione della complicata modalità di ricerca delle zone di foraggio da parte delle bottinatrici, ci limiteremo a dare una breve descrizione di come avviene la raccolta della materia prima e la sua trasformazione.
Il nettare
Il nettare è una soluzione acquosa di zuccheri più o meno viscosa che viene secreta da ghiandole dette nettàri. La localizzazione del nettàrio sulla pianta può essere nel fiore (e perciò conosciuti come nettàri florali) implicati nell’attrazione degli animali impollinatori (M. Pinzauti, Api e impollinazione).
Un altro tipo di nettàrio è quello che si trova in parti non riproduttive della pianta ed è perciò detto extrafiorale (foglie, tronco piccioli ecc.). L’origine del néttare secreto è la linfa floematica (Zimmermann, 1953). Il pre-néttare si muove dalle cellule floematiche verso le cellule del tessuto nettarifero.
La sua composizione è data da acqua (presente da 40 a 80%) e zuccheri (7 – 60%) sono presenti inoltre altre sostanze in piccole quantità, olii essenziali, composti azotati, minerali e vitamine che contribuiscono a conferire al nettare caratteristiche bromatologiche particolari, gli zuccheri presenti sono rappresentati prevalentemente da saccarosio, glucosio e fruttosio in quantità differenti a seconda della specie vegetale considerata.
L’ape, durante la raccolta, si approssima al fiore o ai nettàri extraflorali e sugge, grazie alla ligula ed attraverso la proboscide (insieme delle parti dell’apparato buccale disposti in modo da formare un canale attraversato dalla stessa ligula). Il liquido risucchiato grazie a movimenti di dilatazione e compressione del cibarium arriva alla borsa melaria e qui accumulato; al momento che l’ape ha repleto completamente la borsa (con un contenuto in nettare di circa 40 mg, cioè un terzo del suo peso) fa ritorno all’alveare.
Già durante il viaggio di ritorno l’ape che trasporta il nettare, inizia ad elaborarlo grazie all’aggiunta di certi enzimi che avviene nella borsa melaria (diastasi, invertasi ecc.), arrivata a destinazione essa lo passa attraverso un processo di scambio denominato “trofallassi” ad altre api le quali provvedono ad elaborarlo ulteriormente, inoltre durante i ripetuti passaggi avviene anche una diminuzione della umidità del prodotto, che sarà stoccato nelle cellette solo quando avrà raggiunto una U.R del 40-50%, solo in seguito il miele stoccato viene opercolato quando il contenuto in acqua è sceso al 20% circa. Si considera che necessitano 5 kg di nettare per produrre 2-3 kg di miele in media.
Api che bottinano nettare su fiori di Evodia daniellii (foto www.evodiahupehensis.com)
La melata
La melata è un liquido prodotto dalle deiezioni di certi parassiti delle piante appartenenti soprattutto a tre tipi: afidi, coccidi e psillidi. Le api raccolgono queste deiezioni, che si presentano in forma di goccioline, contenenti una notevole quantità di zuccheri e le trasformano in miele.
Il polline
Il polline può essere considerato il veicolo attraverso il quale, nel processo di fecondazione del fiore, il patrimonio genetico maschile viene trasferito all’interno dell’ovario dove darà origine a tutte quelle trasformazioni che porteranno alla formazione del frutto (M. Pinzauti, Api e impollinazione), inoltre esso viene attivamente bottinato dalle api allo scopo di nutrire le larve e le giovani api destinate alla produzione della pappa reale. Il polline rappresenta l’unica fonte proteica per l’alveare da qui la sua notevole importanza, le api sono specializzate sia nella raccolta del polline da piante anemofile che da piante entomofile, man mano che l’animale visita fiori, si imbratta di granuli pollinici sempre di più , durante il volo da un fiore a l’altro, con un sistema complicato di utilizzo delle spazzole e dei pettini presenti sui tarsi delle zampe l’ape ripulisce le varie porzioni del corpo (dalla testa all’addome) e sistema il polline, che viene impastato con piccole quantità di nettare in modo da formare delle pallottole, nella cestella del polline. Mediamente un’ape impiega da 5 a 15 minuti per completare un carico di polline e che in una giornata compia una ventina di viaggi per completare un carico da 300 mg. Una coloni può arrivare a bottinare in un anno fino a 50 kg di polline (Alberto Contessi, Le api).
Evodia (Tetradium) daniellii
Generalità
Si tratta di una pianta arborea appartenente alla famiglia delle Rutacee (genere Tetradium) assieme a piante come il limone, il dittamo e la ruta, sono angiosperme, dicotiledoni, monoiche e fanerogame.
Il termine eudas indica la caratteristica del profumo, il nome composito di”eu”= bene, “odia”= profumo è chiaramente da relazionare ai i fiori e le foglie piacevolmente profumati.
Il genere Evodia ha la sua origine in Asia orientale. Qui è molto diffuso, soprattutto in Cina, Korea e nelle le isole del Pacifico, si può trovare anche in Giappone, Australia e Africa. Negli anni, è stata introdotta in America, da qui, tramite l’importazione di semi, in Europa.
Questo tipo di pianta offre una fioritura tardiva (che va da luglio a agosto settembre) con forte produzione di nettare e polline. L’Evodia è conosciuta in Inghilterra e negli Stati Uniti con il nome comune di Bee Bee tree o Honey tree proprio in relazione alla grande capacità di attrazione che esercita sugli apoidei in generale e ad apis mellifica in particolare.
Vi sono, di questa specie, circa 45-50 varietà (Jost, 1987) delle quali alcune hanno profumo più intenso di altre, ma che hanno aspetto morfologico assai simile.
Qui in Europa si possono trovare comunemente diversi tipi, in particolare, Evodia daniellii, (chiamata anche Evodia Tetradium daniellii) è quella maggiormente rappresentata.
La diffusione di E. nel nostro continente è piuttosto frammentaria e non c’è mai stato un serio tentativo di piantumazione a scopi produttivi di nessun genere, la presenza è sicuramente maggiormente rappresentata in Ungheria, dove si possono trovare dei veri e propri boschi (piantumazioni effettuate durante il regime comunista), seguono, probabilmente, la Germania e l’Austria, in Italia la coltivazione è pressoché agli inizi e la pianta si sta lentamente diffondendo grazie soprattutto all’attività di alcuni apicoltori.
Nel vecchio continente le prime introduzioni risalgono all’inizio del secolo scorso e si possono trovare delle piante centenarie in parchi, giardini botanici e orti probabilmente introdotte come alberi ornamentali.
Negli anni ’90 un apicoltore viennese, Klaus Fleischmann aveva iniziato ad interessarsi a questa specie fino ad allora poco conosciuta, e intuì il valore che questa pianta arborea poteva avere allo scopo di ottenere una certa quantità di cibo extra per le api durante la stagione tardo estiva – autunnale, quando, specie nelle regioni centro europee, per le api, può essere veramente difficile trovare del cibo che faciliti l’invernamento e la ripresa dell’attività di cova alla primavera.
Cenni di morfologia e fisiologia della pianta
Descrizione
• Altezza: da 15 a 25 metri
• Larghezza: 25 a 30 piedi
• Chioma uniformità: irregolare
• Chioma forma: rotondeggiante, globosa
• Densità di chioma: moderato
• Tasso di crescita: rapido
• foglie: opposte, dispari da 5 a 9. Tutte le piante appartenenti a questa specie hanno foglie composte, opposte e imparipennate, lunghe da 20 a 30 cm, che cadono in autunno. Le foglioline presentano un odore aromatico. Osservando le foglie controluce, al margine, si notano ghiandole resinifere puntiformi contenenti olii essenziali. Se colpite direttamente dal sole diffondono un forte aroma nell’aria.
• forma delle foglie: ellittica, con punta lanceolata
• margine foliare: finemente dentellato
• colore delle foglie: la faccia superiore si presenta verde lucida, la pagina inferiore verde opaco, qui è presente una fine peluria
• decidue: alla caduta di colore tendente al giallo
• colore del fiore: l’infiorescenza cresce di un colore tendente al rosso, al momento della fioritura vera e propria si presentano di colore dal bianco al giallo tenue
• caratteristiche: infiorescenze molto appariscenti, fiori raggruppati in grappoli alti fino a 15-25 cm, simili, per aspetto, al fiore di sambuco, i fiori sono a sessi separati, nell’infiorescenza circa 2/3 dei fiori sono di sesso maschile
• Forma dei frutti: rotondeggianti o stellati, rosso-marroni, attirano volatili e non rappresenta un problema come rifiuto
• semi: piccoli simili a quelli di peonia in numero di 4-5 per frutto, dimensioni di2-8 mm, tegumento resistente e di colore scuro
• Tronco e rami: la pianta forma una chioma larga e arrotondata, la corteccia è grigiomarrone.
Si consiglia di eliminare i rami basali fino all’altezza di due metri da terra, per impedire una eccessiva crescita laterale. Suscettibile alla rottura
• Parassiti e malattie: N/A
• Le foglie come criterio sistematico: le diverse specie del genere si diversificano per il numero delle foglioline che compongono la foglia composta (possono avere da 5 a 9 foglioline). Le foglioline, di una lunghezza da 5 a 9 cm, presentano un margine finemente seghettato, hanno forma ellittica e appuntita all’apice.
La pagina superiore è lucida e glabra, mentre quella inferiore è verde chiaro e opaca.
Le foglie secche sono simili a quelle dell’alloro e del noce.
Il picciolo può essere tendente al rosso. Lungo la nervatura centrale sulla pagina inferiore e in prossimità delle biforcazioni con le nervature laterali cresce una forte peluria.
Se le foglie presentano dei peli lunghi e crespi, allora si tratta dell’Evodia tetradium daniellii (che può raggiungere altezze dai 4 ai 9 m).
Se la peluria è corta e si concentra lungo la nervatura centrale, allora si tratta dell’Evodia hupehensis (con altezze dai 5 ai 20 m).
La foglia della E. tetradium daniellii, inoltre, presenta una base arrotondata ed è quasi sessile, con un picciolo molto breve.
Evodia hupehensis presenta invece una foglia a base cuneiforme con un picciolo corto.
Aspetto della pianta e cenni di metodologia di coltivazione (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
Si tratta di arbusti e alberi sempreverdi o caducifogli (quelli importati in Europa quasi esclusivamente decidui) che a causa delle foglie composte assomigliano notevolmente al nostro frassino comune (Fraxinus excelsior). I germogli annuali di queste specie inizialmente sono coperti di una peluria grigiastra e fitta. A causa delle foglie e del loro odore, la pianta veniva chiamata “frassino puzzolente” nelle sue aree di maggior diffusione (paesi del centro Europa, Germania, Austria).
Le foglie composte, opposte e imparipennate presentano forme diversificate e rispetto al frassino sono maggiormente ovaliformi e largamente lanceolate; inoltre risultano più coriacee. Come habitat la pianta predilige terreni mediamente fertili, ben aerati, ricchi di elementi nutritivi, di medio impasto, con una buona capacità di assorbimento idrico; di contro, teme periodi di siccità prolungati (finchè giovane).
Vegeta quindi bene nelle depressioni del terreno, con esposizioni settentrionali e ben illuminate o nelle zone ombreggiate al margine di altre zone boscate; sono quindi da evitare esposizioni a sud, il soleggiamento diretto, terreni con ristagno idrico e la concimazione chimica.
Nelle fasi iniziali, le giovani piantine devono essere coltivate in consociazione con alberi più grandi ombreggianti, i quali (o dai quali) dovranno essere progressivamente allontanati nel corso del ciclo produttivo per garantire un maggior soleggiamento. Questo è molto importante per il futuro sviluppo dei fiori e quindi per la produzione di nettare.
L’E. presenta una buona resistenza al freddo, purché sia cresciuto regolarmente e con acclimatazione progressiva; può fiorire già a partire dal terzo anno di crescita. Questo albero a rapido accrescimento, una volta raggiunta l’altezza di 10-12 m presenta il tronco con diametri di 30-40 cm.
In Ungheria si trovano intere pendici boscate di Evodia che si diffondono naturalmente tramite la diffusione del seme.
La pianta è monoica a fiori monosessuali (sessi separati), riuniti in infiorescenze distali ad ombrello, lunghe circa 25 cm, oppure raggruppate in una larga pannocchia.
I fiori sono bianchi con screziature da giallo-verde a bianco sporco e diffondono un profumo aromatico. Assomigliano notevolmente alle infiorescenze del sambuco. Il polline è giallo chiaro. All’interno dell’infiorescenza circa 2/3 dei fiori sono maschili; a quanto pare basta il nettare da 3 a 5 fiori non ancora visitati dalle api, per riempire la sacca mellifica di un’ape.
I frutti rosso bruni sono costituiti da 4 a 5 valve lunghe da 2 a 8 millimetri che a maturità si aprono a stella, simili a quelli della Phaeonia, anche se di dimensioni minori.
Dopo l’apertura dei frutti alla base (che avviene in ottobre – novembre) sono visibili i semi ellittici di colore nero lucente.
Per la germinazione i semi necessitano di un periodo di freddo; per questo motivo la conservazione durante l’inverno dovrà avvenire per esempio in un contenitore di vetro in un deposito non riscaldato, al fine di garantire una ottimale quantità di freddo. La semina primaverile avrà successo solo se i semi dormienti avranno trascorso il necessario periodo di freddo. Il potere germinativo è comunque variabile; in caso di scarsa germinabilità è necessario effettuare una semina a stratificazioni, al fine di garantire il miglior adattamento possibile al clima del luogo.
La riproduzione vegetativa tramite talea non sembra dare risultati ottimali. Le piante dovrebbero essere acquistate al termine dell’inverno e non a primavera inoltrata, in modo di garantire sul luogo di piantumazione il migliore adattamento possibile al freddo. Le piante giovani con un fusto sottile devono essere sostenute da un palo tutore e protette dal freddo.
Le foglie, somiglianti a quelle dell’alloro, presentano un profumo molto aromatico, quindi si potrebbe ipotizzare un loro uso come incenso e repellente contro gli insetti. Anche la vicinanza di un albero ha già degli effetti nell’allontanamento di zanzare o insetti fastidiosi e potrebbe essere un buon rimedio per tenere lontani tali insetti dall’abitazione.
Le foglie, una volta cadute, vengono degradate facilmente da citellati ed altri animali del suolo, con le conseguenze positive per la fertilità del terreno. La presenza di frutti oleosi rende questi alberi molto importanti come fonte di nutrimento per l’avifauna.
La pianta adulta in estate (foto www.evodiahupehensis.com)
Vantaggi per l’apicoltura (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
Le piante fioriscono piuttosto tardi (da luglio a metà settembre), con una variabilità legata al clima e al terreno. Il “paradiso del nettare”, a seconda dell’andamento meteorologico, può durare anche fino ad ottobre, durante la fioritura, su ogni infiorescenza, si possono trovare gruppi anche di 100 api. Grazie all’elevato apporto nutritivo, le api si lanciano voracemente sui singoli fiori (si possono anche trovare 3 api contemporaneamente su un singolo fiore).
L’albero, a causa della tarda fioritura, costituisce per numerosi insetti un ideale supporto verso la fine della stagione vegetativa (da qui deriva il nome inglese dell’albero Bee bee-Tree). In America anche il tiglio americano viene chiamato allo stesso modo. Alcuni definiscono il sapore del miele prodotto dell’albero come “particolare”, simile a quello di un farmaco. Ci vuole del tempo per abituarsi all’odore e al sapore del miele di Evodia. Il miele già esistente nei melari dovrebbe essere smielato prima della produzione di miele di Evodia, il quale dovrebbe essere lasciato alle api esclusivamente come nutrimento. Anche i buongustai non apprezzano particolarmente questo tipo di miele.
L’elevata, tardiva e duratura produzione di fiori e quindi di nettare hanno spinto gli apicoltori ad introdurre questa pianta nei nostri ambienti. L’apporto nutritivo in fase autunnale è prezioso per le api, rafforzandole in previsione dello svernamento. Ci sono indizi che il fiore, durante la fioritura principale da luglio a settembre, rafforzi il ciclo riproduttivo delle api.
L’Evodia tetradium daniellii ha una soddisfacente resistenza al freddo, le piante caducifoglie sopportano alle nostre latitudini temperature medie minime annue da -13° a -17°C (come l’apicoltore Klaus Fleischmann ha documentato nei dintorni di Vienna). Per quanto riguarda la resistenza invernale, esistono testimonianze di sopravvivenza a temperature fino a -25°C.
In condizioni di estremo freddo, si gelano singole parti di rami, ma raramente muore l’intera pianta.
Le zone frutti-viticole e le regioni temperate sono ottimali per la piantumazione; anche zone con inverni freddi si prestano comunque bene per lo sviluppo della pianta. Nei vivai non è ancora stata riconosciuta l’importanza di questa specie. Anche il legno non è stato particolarmente valorizzato.
Semina a Stratificazione dei semi di Evodia (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
Se si vuole evitare il rischio di una piantumazione di piante giovani, molto sensibili al gelo, si consiglia di far germogliare i semi attraverso una semina a stratificazione al freddo e di far crescere i germogli adattandoli gradualmente al clima locale. L’albero del miele fa parte delle piante per le quali i semi sono in grado di germinare solo dopo aver attraversato un periodo di freddo, e grazie alle temperature fredde, viene indotta la produzione di ormoni che stimolano la germinazione. I semi vengono posti in inverno in casa per circa due settimane con una temperatura di 18-22°C, in vasi pieni di terra e costantemente inumiditi. Successivamente vengono posti all’esterno, in un luogo non soleggiato, riparati dagli agenti atmosferici e da animali (sono sufficienti stanze non riscaldate od un frigorifero regolabile).
Da febbraio a marzo, per un periodo di 6 settimane la temperatura dovrebbe aggirarsi intorno agli 0°C (con una tolleranza da -5° a +5 °C). Quando le giornate iniziano inevitabilmente a riscaldarsi, allora è possibile iniziare ad innaffiare i semi in aiuole a mezzombra (naturalmente l’autore fa riferimento alla situazione climatica austriaca.
Proprietà medicinali (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
Quando penso alla salute delle nostre api, ho in mente il pregio di una pianta nettarifera. Più variegata è l’offerta nettarifera, più in salute saranno i popoli delle nostre api.
Le api, non solo sono molto laboriose, ma il loro comportamento offre spunti interessanti anche dal punto di vista umano, nella loro fisiologia, non sono paragonabili ai mammiferi (ai quali appartiene anche l’uomo) esse lavorano sempre con un forte istinto verso l’allevamento delle loro larve.
La loro economia è basata sul principio delle scorte e dell’immagazzinamento, le api, probabilmente sono in grado si selezionare, in modo intelligente, il nutrimento ideale per riuscire a sopravvivere all’inverno. Le api adulte svernano meglio se in autunno hanno immagazzinato polline e nettare con proprietà medicinali. Ci si pone la domanda se il nettare abbia queste proprietà benefiche non solo per le api adulte ma anche per le larve, che il polline di Evodia impedisca la crescita di alcuni batteri sembra essere una cosa ormai certa.
Per capire l’importanza di questa pianta per l’apicoltura, è lecito gettare lo sguardo sulla medicina umana. Nella medicina popolare giapponese e cinese, i semi ed i frutti quasi maturi (probabilmente anche le foglie) vengo utilizzati a fini terapeutici. In Giappone, da anni, nella medicina generale “alternativa” (la cosiddetta medicina Kampo della fitoterapia giapponese), viene esaminata l’efficacia del succo estratto dai frutti e dai semi rossi e neri dell’Evodia hupehensis e dell’Evodia rutaecarpa, si sono riscontrati risultati positivi nella lotta contro l’emicrania e la diarrea. Si è giunti alla conclusione che non una singola sostanza isolata, ma l’insieme di diverse sostanze presenti nella pianta hanno un effetto sinergico.
Contenuti e proprietà terapeutiche (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
Nei frutti che si presentano odorosi e con sapore fortemente amaro, ed in piccola parte anche nei fiori e nelle foglie, sono contenuti degli alcaloidi Evodiamina (deidro-evodiamina, e piccole dosi di idrossi-evodiamina), Rutacarpina (un alcaloide debolmente basico chiamato fino a poco tempo fa Evocarpina), Limonina e Berberina. Questi alcaloidi hanno un’azione antibiotica (antivirale e antibatterica), sono analgesici, astringenti, ricostituenti, diuretici, proteggono gli organi, stimolano il sistema immunitario e la contrazione dell’utero.
Inoltre, riducono grazie alla loro azione riscaldante la sensibilità al freddo e hanno dei benefici sul sistema cardio circolatorio.
Conseguenze per la salute delle api (tratto da “BIENEN AKTUELL” mensile di apicoltura Austria e Alto Adige, pubblicato in luglio e agosto 2012, tradotto da Martin Alber, Fernando Cardinale e Susanna Ghilli)
L’efficacia farmacologica dei principi attivi dell’Evodia è certa. Klaus Fleischmann ha sempre ipotizzato nel comportamento delle api in fase di raccolta anche una selezione basata sulle proprietà medicinali delle piante visitate (e la frequentazione massiccia dei fiori di Evodia ne sottolinea l’importanza farmacologica). Questo è simile a ciò che accade per le piante medicinali come il timo, la melissa, la filipendula, i salici, l’achillea, il tiglio, ecc. estratti altamente concentrati dei semi di E. venivano utilizzati come mezzo dimagrante. Questo vuol dire che a bassa concentrazione di Evodiamina si ha un effetto positivo sulla digestione. Visto che nel nettare e nel polline le Evodiamine si trovano in bassa concentrazione, il loro effetto è positivo sul sistema digerente delle api.
Gli acari parassiti di Varroa portano ad uno stress energetico ed indeboliscono drasticamente il sistema immunitario delle api. Quando si verificano infezioni secondarie, le api non sono più in grado di contrastarle. Infezioni virali e batteriche del tratto intestinale durante il periodo invernale e diarrea ne sono la conseguenza (anche infezioni da Nosema). I principi attivi di Evodia assunti sotto forma di nettare e polline rafforzano le difese immunitarie, combattono i disturbi intestinali e bloccano le infezioni batteriche.
Considerazioni personali
Il materiale specifico e scientifico recuperabile in relazione al rapporto tra E. Tetradium danielli (o E. huphensis) e Apis mellifica, è purtroppo estremamente scarso, specialmente nel nostro paese, dove invece, probabilmente, la coltivazione di questa pianta sarebbe ancora più interessante che nel centro Europa; essa rimane invece piuttosto sconosciuta, ed ha iniziato a diffondersi ultimamente in modo frammentario soprattutto grazie alla forza di volontà di alcuni apicoltori.
Poiché le caratteristiche della pianta in questione sembrano andare oltre la semplice produzione di miele o polline, lasciando intuire un possibile utilizzo a fini addirittura terapeutici dei prodotti delle api dovrebbe sicuramente essere implementato lo studio scientifico diretto a tal proposito.
In riferimento alle possibilità produttive di E. essa si mostra estremamente interessante. In diverse scale che valutano i potenziali nettariferi e polliniferi delle piante essa viene sempre annoverata tra le più importanti, se non la maggior produttrice al mondo.
Più di un autore, dichiara che la pianta è in grado di produrre fino a 2500 kg di nettare per ettaro, contro i 700 di Robinia Pseudoacacia. Considerando che in media si possono ricavare circa 2-3 kg di miele ogni 5 kg di nettare, da un ettaro di E. si potrebbe arrivare a produrre idealmente fino a 1200 kg di miele, le api devono infatti visitare solo 3-5 fiori per riempire la borsa melaria, contro i 30-60 delle altre essenze. La pianta viene valutata con un potenziale sia nettarifero che pollinifero di 4 nella scala comunemente utilizzata, quindi con un punteggio massimo.
Oltre a questo bisogna tenere in considerazione la velocità di crescita della pianta ed il fatto che già al terzo anno di vita è in grado di fiorire questo aumenta ancora le sue potenzialità.
Le maggiori esperienze di piantumazione sono state effettuate nel centro nord Europa, con lo scopo principale di fornire alle api una fioritura tardiva che consenta agli animali di produrre scorte importanti per superare gli inverni freddi e lunghi di quei paesi, alle nostre latitudini sarebbe più che una mera ipotesi riuscire ad avere una notevole produzione in tarda estate con una smielatura da effettuare alla fine di agosto, lasciando poi il miele raccolto a settembre per le scorte invernali delle famiglie, probabilmente una presenza importante di queste piante potrebbe aiutare in modo sostanziale un allungamento della attività produttiva e un migliore allevamento della covata in tarda estate, prima dell’invernamento (la fioritura può protrarsi, in caso di stagione favorevole, fino a ottobre inoltrato).
Rimane da capire in modo oggettivo quale possa essere il reale valore economico del miele prodotto, infatti le opinioni in proposito sono estremamente discordanti, è un fatto che sia assai difficile reperire del miele monoflora di E. per effettuare una valutazione diretta, dalle informazioni raccolte pare che sia caratterizzato da un gusto “molto particolare” che a qualcuno ricorda il sapore di “medicinale”, alcuni apicoltori del centro nord Europa ritengono che in Ungheria (unica nazione dove vi sarebbe una certa produzione) venga mescolato illecitamente con il miele di acacia per aumentarne le caratteristiche bromatologiche.
Se il miele risultasse effettivamente commerciabile sarebbe addirittura valutabile economicamente, l’idea di realizzare degli impianti produttivi appositi, magari unitamente ad altre essenze con fioriture differite e di forte vocazione produttiva (ad esempio la Phacelia tanacetifolia).
Questa sarebbe sicuramente una grande novità nel panorama nazionale della produzione del miele, si deve considerare infatti che dalle colture tradizionali si hanno rese ad ettaro non estremamente remunerative, e possibili solo tramite il sistema delle contribuzioni per l’agricoltura, ad esempio la produzione di grano duro ha una resa media di circa 900 euro/ha, ben diverso sarebbe il reddito derivante dalla vendita di 1200 kg di miele. Rimane sicuramente un problema importante il fatto che non siano previsti sistemi di aiuto contributivo per la piantumazione e coltivazione di essenze destinate alla produzione di miele.
Altra produzione importante che può sicuramente dare l’E. è quella del polline, anche in questo caso la pianta può essere definita un forte produttore, e questo potrebbe integrare un eventuale reddito. L’aspetto riguardante l’attività farmacologica di sostanze prodotte dalla pianta è sicuramente un argomento assai interessante e da studiare, come si può leggere nell’articolo “Constituents of the fruits and leaves of Euodia daniellii” pubblicato dalla Pharmaceutical Society of Korea i cui autori sono Sang, Yoo; Ju, Kim; Sam, Kang; Kun, Son; Hyeun, Chang; Hyun, Kim; KiHwan, Bae; Chong, Lee, risulta chiaro che:
-nella medicina tradizionale koreana gli olii estratti dai frutti a dalle foglie di E. danielli sono utilizzati per la cura delle infiammazioni gastriche, dell’emicrania e per eliminare/allontanare insetti nocivi per la salute dell’uomo (zanzare), sono inoltre utilizzati per la cura di svariate dermatiti anche di tipo parassitario (infestazioni da Sarcoteps scabiei) (Lee 1993, Chung 1970). E’ noto che la pianta contiene alcaloidi, limonine, steroli ed altri composti. Gli studiosi sopracitati nell’anno 2000 hanno isolato da E. Daniellii ben quattordici composti di cui almeno uno, risulta inibitore della COX-2 (ciclossigenasi 2) con conseguente attività antiflogistica.
Conclusioni
Il lavoro svolto ha l’intenzione di mettere in evidenza l’esistenza di essenze vegetali che possono avere una importanza notevole per l’attività di apicoltura, le possibilità da esplorare sono molte e molteplici sono le piante che hanno potenzialità produttive assai elevate, rimangono aperti molti spazi di studio a cui si fa breve accenno di seguito:
• Il capitolo riguardante il rapporto che la natura ha creato tra Apis mellifica ed Evodia Tetradium daniellii è assolutamente da approfondire con attenzione scientifica e anche con una visione legata alle possibilità produttive.
• La valutazione delle reali possibilità economiche legate alla coltivazione intensiva della pianta andrebbero meglio saggiate, una possibilità in questo senso potrebbe portare ad una notevole novità nel campo dell’apicoltura nel nostro paese.
• Uno studio approfondito dovrebbe essere svolto anche in relazione alle possibili attività farmacologiche del miele e del polline prodotti a partire da E. visto che vi sono evidenze relative alla presenza di sostanze farmacologicamente attive in varie parti della pianta.
Bibliografia
Alberto Contessi, “LE API” edizioni Edagricole
M.Pinzauti, “Api e impollinazione” pubbliacazione per ARSIA Toscana
Roberta Scarselli
http://www.bienenaktuell.com/
http://www.bee-hexagon.net/
http://www.evodiahupehensis.com
http://www.bienenbaum.com
http://www.facebook.com/EvodiaTetradiumDanielli/
http://www.deepdyve.com/lp/springer-journals/constituents-of-the-fruits-and-leaves-ofeuodia-daniellii-SwEZ7jatIg
www.oltrealmiele.it
www.focus.it
Michelangelo Cecconi E-mail: cecconivet@gmail.com
Titolo tesi: “Apis mellifera ed Evodia (Tetradium) daniellii, un possibile binomio per la produzione di miele e polline”
Master Universitario di II livello in “Patologia apistica ed apidologia generale”
Direttore: Dott. Antonio Felicioni
Dipartimento di Scienze Veterinarie – Università degli Studi di Pisa
Apicoltura da manuale Manuale pratico, nuovissimo, con immagini di qualità, con le tecniche di allevamento più moderne… |